domenica 14 dicembre 2014

coppia divina unione sessuale

Presso la religione induista, Ganesha o Ganesh (Sanscrito गणेश IAST Gaṇeśa) è una delle rappresentazioni di dio più conosciute e venerate; figlio primogenito di Śiva e Parvati, viene raffigurato con una testa di elefante provvista di una solazanna, ventre pronunciato e quattro braccia, mentre cavalca o viene servito da un topo, suo veicolo. Spesso è rappresentato seduto, con una gamba sollevata da terra e ripiegata sull'altra, nella posizione della Lalitasana. Tipicamente, il suo nome è preceduto dal titolo di rispetto induista, Shri.
Il culto di Ganesha è molto diffuso, anche al di fuori dell'India; i devoti di Ganesha si chiamano Ganapatya.

Ganesha è infatti il simbolo di colui che ha scoperto la Divinità in se stesso.
Egli rappresenta il
perfetto equilibrio tra energia maschile (Śiva) e femminile (Shakti), ovvero tra forza e dolcezza, tra potenza e bellezza; simboleggia inoltre la capacità discriminativa che permette di distinguere la verità dall'illusione, il reale dall'irreale.
Una descrizione di tutte le caratteristiche e gli attributi di Ganesha si può trovare nella Ganapati Upaniad (una Upaniaddedicata a Ganesha) del rishi Atharva, nella quale Ganesha è identificato con il Brahman e con Ātman.[2] In questo inno, inoltre, è contenuto uno dei mantra più famosi associati a questa divinità: Om Gam Ganapataye Namah (lett. Mi arrendo a Te, Signore di tutti gli esseri).
Nei Veda si trova anche una delle più salmodiate preghiere attualmente attribuite a Ganesha, che costituisce l'inizio del Ganapati Prarthana:
Gaṇānāṃ tvā ganapatiṃ havāmahe kavim kavīnām upamaśravastamam
jyeṣṭarājam brahmaṇām brahmaṇas pata ā nah śṛṇvann ūtibhiḥ sīda sādanam[3]
(Rig Veda 2.23.1)

Ganesha è una divinità molto amata ed invocata, poiché è il Signore del buon auspicio che dona prosperità e fortuna, il Distruttore degli ostacoli di ordine materiale o spirituale; per questa ragione se ne invoca la grazia prima di iniziare una qualunque attività, come ad esempio un viaggio, un esame, un colloquio di lavoro, un affare, una cerimonia, o un qualsiasi evento importante. Per questo motivo è tradizione che tutte le sessioni di bhajan (canti devozionali) comincino con una invocazione a Ganesha, Signore del "buon inizio" dei canti.

Ogni elemento del corpo di Ganesha ha una sua valenza ed un suo proprio significato:
·         la testa d'elefante indica fedeltà, intelligenza e potere discriminante;
·         il fatto che abbia una sola zanna (e l'altra spezzata) indica la capacità di superare ogni dualismo;
·         le larghe orecchie denotano saggezza, capacità di ascolto e di riflessione sulle verità spirituali;
·         la proboscide ricurva sta ad indicare le potenzialità intellettive, che si manifestano nella facoltà di discriminazione tra reale ed irreale;
·         sulla fronte ha raffigurato il Tridente (simbolo di Śiva), che simboleggia il Tempo (passato, presente e futuro) ne attribuisce a Ganesha la padronanza;
·         il ventre obeso è tale poiché contiene infiniti universi, rappresenta inoltre l'equanimità, la capacità di assimilare qualsiasi esperienza con sereno distacco, senza scomporsi minimamente;
·         la gamba che poggia a terra e quella sollevata indicano l'atteggiamento che si dovrebbe assumere partecipando alla realtà materiale e a quella spirituale, ovvero la capacità di vivere nel mondo senza essere del mondo;
·         le quattro braccia di Ganesha rappresentano i quattro attributi interiori del corpo sottile, ovvero: mente, intelletto, ego, coscienza condizionata;
·         in una mano brandisce un'ascia, simbolo della recisione di tutti i desideri, apportatori di sofferenza;
·         nella seconda mano stringe un lazo, simbolo della forza che lega il devoto all'eterna beatitudine del Sé;
·         la terza mano, rivolta al devoto, è in un atto di benedizione (abhaya);
·         la quarta mano tiene un fiore di loto (padma), che simboleggia la più alta meta dell'evoluzione umana.

Ganesha e il Topo[modifica | modifica wikitesto]

La cavalcatura di Ganesha è un piccolo topo (Mushika o Akhu), che rappresenta l'ego, la mente con tutti i suoi desideri, la bramosia dell'individuo; Ganesha, cavalcando il topo, diviene padrone (e non schiavo) di queste tendenze, indicando il potere che l'intelletto e la discriminazione hanno sulla mente. Inoltre il topo (per natura estremamente vorace), viene spesso raffigurato a fianco di un piatto di dolci, con lo sguardo rivolto a Ganesha mentre tiene un boccone stretto tra le zampe, come in attesa di un suo ordine; rappresenta la mente che è stata completamente assoggettata alla facoltà superiore dell'intelletto, la mente sottoposta ad un ferreo controllo, che fissa Ganesha e non si accosta al cibo se non ne riceve il permesso. C'è anche un altro significato di Akhu, l'astuzia del topo che accompagnata alla saggezza dell'elefante fa compiere grandi imprese e, inoltre, tanto l'elefante quanto il topo, passano dappertutto, quasi senza incontrare ostacoli: uno per via della sua mole e l'altro, per la sua minutezza. Ganesha, infatti, è colui che aiuta a superare gli ostacoli e viene venerato prima di iniziare qualsiasi impresa.

« Un elefante ha, di norma, due zanne. Anche la mente propone spesso due alternative: quella buona e quella cattiva, l'eccellente e l'espediente, il fatto e la fantasia che la porta fuori strada. Per fare qualsiasi cosa, la mente deve comunque diventare determinata. La testa di elefante del Signore Ganesha ha quindi una sola zanna per cui Egli è chiamato "Ekadantha", che significa "Colui che ha una sola zanna", per ricordare ad ognuno che si deve possedere la determinazione mentale. »

Sposato o celibe?[modifica | modifica wikitesto]

È interessante notare come, secondo la tradizione, Ganesha sia stato generato dalla Madre Parvati senza l'intervento del marito Śiva; infatti Śiva, essendo eterno (Sadashiva), non sentiva alcuna necessità di avere figli. Così Ganesha nacque dall'esclusivo desiderio femminile di Parvati di creare. Di conseguenza, la relazione di Ganesha con la propria madre è unica e speciale.
Questa devozione è la ragione per la quale la tradizione dell'India del sud lo rappresenta come celibe (v. l'aneddoto Devozione alla Madre). Si dice che Ganesha, ritenendo sua madre Parvati la donna più bella e perfetta dell'universo, abbia esclamato: "Portatemi una donna bella come lei ed io la sposerò".
Nell'India del nord, invece, Ganesha è spesso raffigurato sposato alle due figlie di Brahma: Buddhi (intelletto) e Siddhi (potere spirituale). In altre raffigurazioni le sue consorti sono: Sarasvathi (dea della cultura e dell'arte) e Lakshmi (dea della fortuna e della prosperità), a simboleggiare che queste qualità accompagnano sempre colui che ha scoperto la propria Divinità interiore.

 « Vaiśvānara, lo stato di veglia è indicato dalla suono A che è il primo elemento in quanto ottiene o in
« Lo stato di sogno, Taijasa, è indicato quanto è primo. Ottiene ciò che desidera e risulta primo colui che così conosce. » dal suono U che è il secondo elemento per il fatto che è più in alto [di quello precedente] o perché partecipa dagli altri due [in cui sta in mezzo]. Chi lo conosce è in armonia col Tutto, nessuno dei suoi discendenti ignorerà il Brahman »
La sacra sillaba viene quindi analizzata dividendola nei quattro vissuti che costituiscono lo stato di coscienza: veglia, sogno e sonno senza sogni, nonché, il quarto stato, turīya, al di là di ogni definizione è l'Ultimo, il Brahman.
l'Oṃ viene indicato come suono originario (VI,3) e viene infine raccomandata la pratica della meditazione dell'Oṃ come Sé.
 Egli deve sempre pronunciare "Oṃ!" alla fine e all'inizio della recitazione dei Veda, perché se non c'è prima, [la recitazione dei Veda] si perde, se non c'è dopo, questa si dissolve. »
(Manusmṛti, II,74)
« Un sacrificio che consiste nel recitare [la sillaba Oṃ e il verso in onore di Savitṛ[5]] è dieci volte migliore di un sacrificio regolare; se mormorato è cento volte migliore; è se è [recitato] solo con la mente è tradizionalmente considerato mille [volte migliore]. »
(Manusmṛti, II,85)






tre aspetti in uno che possono essere simboleggiati dall'Oṃ.
Aspetto divino
Mondi
Stato di coscienza
A
Creazione
Tamas
Terra
Veglia
U
Conservazione
Rajas
Atmosfera
Sonno
M
Dissoluzione
Sattva
Cielo
Sonno profondo
Totalità indifferenziata

Come si può vedere dalla tabella, esiste anche un quarto suono: esso, però, è trascendentale e consiste nel silenzio che segue i tre suoni del mantra. È un "suono silenzioso", un momento di assoluta contemplazione che rappresenta l'immanifesto, la condizione primordiale dell'Essere che precede la manifestazione.

Il mantra Aum deve essere pronunciato, con concentrazione, in un modo ben preciso e con energia:
·         La A- deve originarsi dalla regione dell'ombelico ed emergere dalla gola;
·         La U- la si pronuncia rovesciando la lingua;
·         La M- termina sulle labbra e la vibrazione termina sulla sommità del capo.


Lo studio della Tarda veda mi dona l’ Unità con il signore Brahman (devanāgarī ब्रह्मन्, lett. "sviluppo") è un termine sanscrito all'origine di molteplici significati nelle religioni vedica, brahmanica e induista.

« Lo stato di sonno profondo, prājña è indicato dal suono M che è il terzo elemento, in quanto crea o dissolve. Colui che conosce questo penetra questo universo facendolo suo »

« Il quarto non corrisponde ad un elemento è non misurabile è al di là della manifestazione e non agisce; è calmo e non duale. Tale è la sillaba Oṃ, in verità è l'Ātman colui che così conosce penetrando con l' Ātman [individuale] l'  Ātman [universale] »


Nessun ostacolo
Felicità in ogni luogo in ogni circostanza
« Questa sillaba esprime l'assenso. Quando si vuole dare l'assenso a qualcosa si pronuncia Oṃ. E ciò a cui si dà l'assenso verrà realizzato. Colui che conosce questo venera udgītha come la sillaba Oṃ realizzerà i suoi desideri »


5 gravi peccati
Devoto liberato da tutti i peccati recitando alla sera e alla mattina
4 mete della vita umana
“ darta Ātman  carma moscia “ …..
Panisciab 1000 modca otterrà qualunque  fine  cosa desiderata
Recita per tutto il giorno
Memoria
8 Brillante come il sole
Grande fiume Statua Signore ganecsia liberato da tutti peccati e diverrà onniscente
Saggio artvuana
« La parola è il ṛk (Ṛgveda), il soffio vitale è il sāman (Sāmaveda), l'udgītha è la sillaba Oṃ . Parola e soffio vitale formano una coppia così come il ṛk con il  sāman »

Saggio artvana
Ramoscelli bagnati nel ghi

« Egli è l'Ātman privo di difetto corrispondente ad Oṃ guardandone gli elementi che lo costituiscono. Gli elementi che lo costituiscono corrispondono alle essenze e le essenze corrispondono agli elementi che lo costituiscono, ossia ai suoni A U M. »


Oṃ ()
 simbolo dell'Oṃ, il più sacromantra induista. Questo simbolo deriva dall'unione di due caratteri del  devanāgarī:   ('o') + ('m' nasale) riportati in corsivo. Risultando ildevanāgarī una scrittura non precedente all'VIII secolo d.C. questo simbolo è di gran lunga posteriore alla sillaba Oṃ presente in testi anteriori almeno al VI secolo a.C. (romanizzato anche come Oṁ[1], Óm e Aum), è un termine indeclinabile sanscrito che con il significato di solenne affermazione è posto all'inizio di buona parte della letteratura religiosa indiana.
·         Come sillaba sacra viene pronunciata all'inizio o al termine di una lettura dei Veda.
« Colui che non conosce la sillaba imperitura del Veda, quel punto supremo presso il quale vivono tutti gli Dei, che cosa egli ha a che fare con il Veda? Solo coloro che la conoscono siedono qui pacificamente riuniti »
·         « Occorre venerare il canto liturgico (udgīta) come fosse la sillaba Oṃ con Oṃinfatti si inizia il canto liturgico. Ora spiegheremo »
Pace pace pace
·         4
·          
·         Mille volte paniscab
·         Inno al momento della morte
·         Ganescia con fili di tenera erba
·         1000 modaca
·         Insegnare a 8 eruditi
·         Statua sul fiume
·         Oniscente
·         Om  gana iamà

I mantra nell'Induismo e nelle tradizioni tantriche

La vita di un devoto hindu è pervasa dalla recitazione dei mantra, pratica che lo accompagna in vari momenti della vita e del quotidiano per fini che sono sia sacri (rituali o soteriologici) sia profani (utilitaristici o anche magici), come per esempio: ottenere la liberazione (mokṣa); onorare le divinità (puja); acquisire poteri sovrannaturali (siddhi); comunicare con gli antenati; influenzare le azioni altrui; purificare il corpo; guarire dai mali fisici; assisterlo nei riti; eccetera[10]. Ogni mantra va usato nel modo corretto, e a secondo del modo può dare differenti risultati:
« I mantra 'comprovati' danno risultati sicuri entro un tempo determinato. I mantra 'che aiutano' danno buoni risultati se vengono ripetuti nel rosario, o se li si impiega per accompagnare le oblazioni. I mantra 'realizzati' danno risultati immediati. I mantra 'nemici' distruggono quelli che vogliono usarli. »
(Mantra-Mahodadhi, 24-23, citato in A. Daniélou, Miti e dei dell'India, Op. cit., p. 381)
Questi usi e forme dei mantra non appartengono alla tradizione vedica, dove, come si è detto, il mantra era un inno recitato dal brahmano durante le cerimonie liturgiche, utilizzato quindi per invocare la divinità o influire magicamente sul mondo, ma sono successivi. È soprattutto nell'ambito tantrico (sia induista sia buddhista) che i mantra si sono diffusi e hanno acquisito quei caratteri che oggi in India è dato di cogliere. Nelle tradizioni tantriche i mantra associati alle divinità sono considerati la forma fonica della divinità stessa. Altri mantra rappresentano, per esempio, parti del corpo o del cosmo.[11].

·         Come mantra, il più sacro e rappresentativo della religione induista, è oggetto di riflessioni teologiche e filosofiche, nonché strumento di pratica religiosa e meditativa.


Secondo Jean C. Heesterman[8] il tema del Brahman è collegato, nelle quattro raccolte degli inni dei Veda alla contesa verbale, ovvero al rito del Brahmdoya propria della cultura vedica con particolare riferimento al sacrificio del cavallo (aśvameda). In questo contesto, prima del sacrificio i due officianti si sfidavano con domande enigmatiche, colui che riusciva a risolverle affermava di sé stesso:
(SA)
« brahmayāṃ vācaḥ paramaṃ vyoma »
(IT)
« questo brahman è il cielo più alto della parola »
Heesterman ricorda come queste contese non erano affatto pacifiche, il concorrente che insisteva a sfidare il vincitore con ulteriori enigmi avrebbe pagato con la sua testa i suoi affronti.
Quindi il termine Brahman originerebbe da una figura sacerdotale dell'India vedica vincitore nelle gare sacrificali poetico-enigmatiche. Con l'ingresso della letteratura in prosa dei Brāhmaṇa si osserva, a partire dal X secolo a.C., un radicale cambiamento: al rituale agonistico si sostituisce il rituale rigidamente codificato e pacifico.
« Questo cambiamento fondamentale è espresso in modo interessante in un mito ritualistico che narra della competizione sacrificale decisiva tra Prajāpati e Mṛtyu, o morte (Jaiminīya Brāhmaṇa, 2,69-2,70). Prajāpati conquista la vittoria finale perché riesce a "vedere" l'analogia, che gli consente di assimilare la panoplia sacrificale dell'avversario e di eliminarlo quindi in maniera definitiva. Conclude il testo: "da allora non vi furono più contese sacrificali »
(Jean C. Heesterman. Op.cit. pag.57)
Nel contesto dei Brāhmaṇa il Brahman da espressione dell'"enigma cosmico" oggetto di competizione sacerdotale, diviene la stessa formula sacrificale oggettiva e trascendente che si concretizza nel rituale.
Come evidenzia David M. Knipe[9] la divinità che incarna e centralizza questo processo nei Brāhmaṇa è Prajāpati che lega l'antico Puruṣa vedico, ovvero colui che istituisce il sacrificio, l'impersonale Brahman (potere della formula sacra) e infine il dio personale Brahmā.
Così il Ṛgveda (X,90,7-8):
(SA)
« taṃ yajñam barhiṣi praukṣan puruṣaṃ jātam agrataḥ tena devā ayajanta sādhyā ṛṣayaś ca ye tasmād yajñāt sarvahutaḥ sambhṛtam pṛṣadājyam paśūn tāṃś cakre vāyavyān āraṇyān grāmyāś ca ye »
(IT)
« Quel Puruṣa, nato ai primordi, essi [gli Dei] lo aspersero come vittima sacrificale sull'erba. Con lui gli Dei, i Sādhyā e i cantori compirono il sacrificio. Da quel sacrificio completamente offerto fu raccolto il burro coagulato: esso divenne animali, quelli dell'aria, quelli della foresta e quelli dei villaggi »
(Ṛgveda (X,90,7-8))
Così, ad esempio, il Samāvidhāna Brāhmaṇa (I,1,3)
(SA)
« brahma ha vā idam agra āsīt tasya tejoraso 'tyaricyata sa brahmā samabhavat sa tūṣṇīṃ manasādhyāyat tasya yan mana āsīt sa Prajāpatir abhavat »
(IT)
« In origine vi era il Brahman soltanto; poiché il succo della sua forza si espandeva, divenne Brahmā. Brahmā meditò in silenzio con la mente e la sua mente divenne Prajāpati »
(Samāvidhāna Brāhmaṇa (I,1,3))
« Il sacrificio come Prajāpati è anteriore a tutti gli esseri, poiché questi non potrebbero sussistere senza di esso; esso nasce anche dai soffi della mente, poiché è essenzialmente mentale. [...] [Prajāpati] è altresì figlio delle Acque, poiché le Acque sono il principio della purezza rituale; oppure del Brahman, la formula sacra, poiché non c'è separazione tra rito e liturgia »
(Sylvain Lévi. La dottrina del sacrificio nei Brāhmaṇa. Milano, Adelphi, 2009, pag.46)

Il Brahman nelle Upaniad

Nato come sostantivo maschile negli inni dei Veda per indicare sia le figure sacerdotali che durante il sacrificio competitivo esprimono dei mantra enigmatici sul cosmo che lasciano non espressa la risposta[11] sia le stesse espressioni enigmatiche, nei Brāhmaṇa, il brahman (sostantivo neutro) diviene il mantra rituale codificato, e il suo potere, che deve essere semplicemente appreso e conservato a memoria dal brahmano e recitato durante i riti.
Con le Upaniṣad si passa ad indagare la natura di questo Brahman che diviene l'origine di ogni cosa, l'Assoluto:
« Invisibile, inafferrabile, senza famiglia né casta, senza occhi né orecchie, senza mani né piedi, eterno, onnipresente, onniprervadente, sottilissimo, non soggetto a deterioramento, Esso è ciò che i saggi considerano matrice di tutto il creato. Come il ragno emette [il filo] e lo riassorbe, come sulla terra crescono le erbe, come da un uomo vivo nascono i capelli e i peli, così dall'Indistruttibile si genera il tutto. »

« "E, dove risiederà la radice del corpo se non nell'acqua? Analogamente se riteniamo il germoglio l'acqua, figlio mio, il calore (tejas) sarà la sua radice. Se consideriamo il calore un germoglio l'essere (sat) sarà la radice. Tutti i viventi hanno le proprie radici nell'essere (sat), si basano sull'essere, si sostengono sull'essere. Ora mio caro ti è stato detto come queste tre divinità pervenute nell'uomo siano divenute triplici. Quando un uomo muore, mio caro, la parola rientra nella mente,la sua mente rientra nel soffio vitale, il soffio vitale rientra nel calore e questi rientra nella suprema divinità. Qualunque sia questa essenza sottile, tutto l'universo è costituito di essa, essa è la realtà di tutto, essa è l'Ātman. Quello sei tu (Tat tvam Asi) o Śvetaketu!". "Continua il tuo insegnamento o signore!". "Bene, mio caro" gli rispose. »

I  (TARDA VEDA) Veda (in alfabeto devanāgarī वेद[1], sanscrito vedico Vedá) sono un'antichissima raccolta in sanscrito vedico di testi sacri dei popoli arii che invasero intorno al XX secolo a.C. l'India settentrionale, costituenti la civiltà religiosa vedica, divenendo, a partire della nostra era, opere di primaria importanza presso quel differenziato insieme di dottrine e credenze religiose che va sotto il nome di Induismo.



Le Upaniṣad (sanscrito, sostantivo femminile, devanāgarī: उपनिषद्) sono un insieme di testi religiosi e filosofici indianicomposti in lingua sanscrita a partire dal IX-VIII secolo a.C. fino al IV secolo a.C. (le quattordici Upaniṣad vediche) anche se progressivamente ne furono aggiunti di minori fino al XVI secolo raggiungendo un numero complessivo di circa trecento opere aventi questo nome.
Trasmesse per via orale, furono messe per iscritto per la prima volta nel 1656 quando il sultano musulmano Dara Shikoh(1615-1659) ordinò la traduzione dal sanscrito al persiano di cinquanta di esse e quindi la loro resa in forma scritta[1].
Il termine Upaniṣad deriva dalla radice verbale sanscrita: sad (sedere) e dai prefissi upa e ni (vicino) ossia "sedersi vicino", ma più in basso (ad un guru, o maestro spirituale), suggerendo l'azione di ascolto di insegnamenti spirituali.
Questo termine richiama chiaramente, come evidenziato da Mario Piantelli[2], anche un insegnamento "esoterico". Significativo è che persino la Bhagavadgītā si qualificava come upaniṣad nel colophon dei manoscritti del Mahābhārata e che, evidenzia Piantelli ricordando le note dell'antico commentatore Bhāskara, le persone di bassa casta[3] che l'avessero ascoltata avrebbero subito la stessa sorte di coloro che avessero ascoltato le Upaniṣad senza averne la qualifica: gli sarebbe stato versato del piombo fuso nelle orecchie. Questo spiega la ragione per cui le Upaniṣad non furono mai messe per iscritto ma sempre trasmesse per via orale solo a persone che erano autorizzate a riceverne gli insegnamenti.
Le Upaniṣad sono, dunque, commentari "segreti" (rahasya) dei Veda, nonché loro 'fine', nel senso di completamento dell'insegnamento vedico; per questo motivo sono anche conosciuti come Vedānta (Fine dei Veda) e sono alla base del pensiero religioso indiano che attraverso il Brahmanesimo giungerà, nella nostra era, a costituire quel complesso di dottrine e pratiche che va sotto il nome di Induismo.

Il termine sanscrito vedico veda indica il "sapere", la "conoscenza", la "saggezza", e corrisponde all'avestico vaēdha, al greco antico οἷδα (anticamente ϝοἷδα, da leggere "voida"), al latino video.
La letteratura vedica origina da un popolo, gli Arii, che intorno al 2200 a.C. migrò verso l'India nord-occidentale (allora indicata come Saptasindhu सप्त सिंधु, Terra dei sette fiumi, in avestico Hapta Hindu) provenendo dall'area di Balkh (oggi in Afghanistan settentrionale). Un altro raggruppamento di questo popolo, gli Iranici, sempre provenienti dalla medesima area, invase invece l'attuale Iran fondandovi una cultura religiosa che successivamente fu in parte raccolta nell'Avesta. Fu dunque nell'area dell'Afghanistan settentrionale che i Veda acquisirono le loro prime caratteristiche religiose e linguistiche[2].
Elemento centrale delle credenze religiose degli Arii era lo Ṛta (in alfabeto devanāgarī ऋत, in avestico Aša) ovvero la Legge cosmica, e il suo "guardiano" Asura Varuṇa (वरुण devanāgarī, avestico Ahura Mazdā), concentrandosi il sacrificio religioso nella bevanda sacra, il soma (सोम devanāgarī, avestico haoma) e sul rito del fuoco (devanāgarī अग्नि agni, avestico āthra).
Con l'ingresso di questi popoli Arii nell'India settentrionale, e con i conseguenziali scontri militari con le popolazioni autoctone, acquisì rilievo religioso l'eroico dio guerriero Indra (इन्द्र).
Mentre con il successivo accoglimento anche di culti autoctoni, spesso fondati su pratiche sciamaniche e sull'utilizzo di formule magiche (mantra, मन्त्र), la cultura religiosa degli Arii si sviluppò e si diffuse sul territorio indiano in quelle caratteristiche che saranno poco dopo organizzate dai "cantori" (devanāgarī: ऋषि ṛṣi) dei primi due Veda: il Ṛgveda e alcune parti dell'Atharvaveda (2000-1700 a.C.).

Esso è illimitato e inconcepibile:
« Al principio in questo universo soltanto il Brahman esisteva. Illimitato verso l'oriente, illimitato verso il mezzogiorno, illimitato verso l'occidente, illimitato verso settentrione, illimitato di sopra, illimitato da ogni parte. Esso è costituito di etere. Da questo etere esso desta questo universo. Da questo esso sorge e in esso va a finire. Di questo Brahman la forma luminosa è quella che arde nel sole lassù, nel fuoco senza fumo [e nel cuore]. Quello che è nel fuoco e quello che è nel cuore e quello che è nel sole, sono in realtà una sola cosa. Nell'unità con l'Uno va colui che così sa »
Esso è l'Oṁ:
« LOṁ è tutto l'universo. Ecco la sua spiegazione: Passato, presente e futuro, tutto ciò è Oṁ. E anche ciò che va oltre il tempo, che è stato, è e sarà è Oṁ. Infatti ogni cosa è il Brahman. Ātman è il Brahman »


Atharvaveda   

L'Atharvaveda (anche Atharvāṅgirasaḥ o Brahmaveda) è il trattato delle formule magiche e della medicina. Consiste di una raccolta di formule magiche (brahman) sia positive (atharvan) sia negative (aṅgirga), di carattere popolare. Inizialmente non fu considerato autorevole ma poi venne inglobato nella raccolta della letteratura religiosa degli arii e adottato come manuale rituale dei brahmani. Esistono due recensioni di questo veda denominate Śaunaka e Paippalāda.

I Veda nelle tradizioni hindu[modifica | modifica wikitesto]

« Quello enunciato nel Veda è il Dharma supremo; in secondo luogo viene quello della tradizione sacra; segue poi quello praticato dagli uomini dabbene. Ecco i tre dharmaeterni. »
(Mahābhārata, XIII, 141, 65; citato in La saggezza indiana, a cura di Gabriele Mandel, Rusconi, 1999)

approfondimenti teologici il Brahman impersonale indifferenziato (nirdvaṃdva) divenne oggetto di un processo di personalizzazione in divinità specifiche, principalmente nella figura dei deva Viṣṇu e Śiva[12].

I bīja ("seme") sono monosillabi che generalmente non hanno un significato semantico, o lo hanno perso nel corso del tempo, ma vanno interpretati come suoni semplici atti a esprimere o evocare particolari aspetti della natura o del divino, e ai quali sono attribuiti funzioni specifiche e interpretazioni che variano di scuola in scuola. Spesso questi "semi verbali" sono combinati fra loro a costituire un mantra, oppure adoperati come mantra essi stessi (bījamantra). Alcuni fra i più noti sono[15]:
·         AUṂ: è il bīja più noto, l'oṃ, comune a tutte le tradizioni. Considerato il suono primordiale, forma fonica dell'Assoluto, è utilizzato sia come invocazione iniziale in moltissimi mantra, sia come mantra in sé. Le lettere che compongono[16] il bīja sono A, U ed Ṃ: nella recitazione A ed U si fondono in O, mentre la Ṃ terminale viene nasalizzata e prolungata fonicamente e visivamente. La recitazione dell'OṂ è molto comune, ed è considerata di grande importanza: numerosi testi citano e argomentano su questo mantra.
·         AIṂ: la coscienza. È associato alla dea Sarasvatī, dea del sapere.
·         HRĪṂ: l'illusione. È associato alla dea Bhuvaneśvarī, distruttrice del dolore.
·         ŚRĪṂ: l'esistenza. È associato alla dea Lakṣmī, dea della fortuna.
·         KLĪṂ: il desiderio. È associato al dio Kama, dio dell'amore, ma rivolto anche a Kālī, la distruttrice.
·         KRĪṂ: il tempo. È associato alla dea Kālī.
·         DUṂ: la dea Durga.
·         GAṂ: il dio Ganapati.
·         HŪṂ: protegge dalla collera e dai demoni.
·         LAṂ: la terra
·         VAṂ: l'acqua
·         RAṂ: il fuoco
·         YAṂ: l'aria
·         HAṂ: l'etere


Come divinità della ricchezza è venerata da coloro che vogliono guadagnare o mantenere i propri guadagni; si crede che Lakshmi (e quindi la ricchezza) visiti solo case pulite e abitate da gente che lavora, mentre si tiene lontana dalla sporcizia e dai pigri.
La dea Lakshmi è incorrettamente identificata col denaro; questo è certo parzialmente vero, ma è conseguenza del suo attributo principale, la prosperità o abbondanza. È inoltre dea anche della purezza e della santità, oltre che del Brahma-vidya (conoscenza divina); è a lei che ci si rivolge per chiedere felicità in famiglia, amici, matrimonio, bambini, cibo e ricchezza, bellezza e salute.
È una divinità molto venerata, e oltre ad essere oggetto di culto da parte di ogni confessione induista (abbastanza raro per i deva), lo è anche da parte di molti giainisti e buddhisti.
Tra le preghiere a Lakshmi le più famose sono il Lakshmi Stuti (tratta dallo Shri Viṣṇu Purana) e lo Shri Sukta.

Otto tipi di ricchezza

Come dea della ricchezza ha 8 aspetti;
1.   Adi Lakshmi (आदि लक्ष्मी, Ādi Lakṣmī) — abbondanza di santità;
2.   Dhanya Lakshmi (धान्य लक्ष्मी, Dhānya Lakṣmī) — abbondanza di cibo;
3.   Dhairya Lakshmi (धैर्य लक्ष्मी, Dhairya Lakṣmī) — abbondanza di coraggio;
4.   Gaja Lakshmi (गज लक्ष्मी, Gaja Lakṣmī) — elefanti, simbolo di ricchezza;
5.   Santana Lakshmi (सन्तान लक्ष्मी , Santāna Lakṣmī) — abbondanza di progenie;
6.   Vijaya Lakshmi (विजय लक्ष्मी, Vijaya Lakṣmī) — abbondanza di vittorie;
7.   Vidya Lakshmi (विद्या लक्ष्मी, Vidyā Lakṣmī) — abbondanza di conoscenza;
8.   Dhana Lakshmi (धन लक्ष्मी, Dhana Lakṣmī) — abbondanza di denaro.

Fisicamente, la dea Lakshmi è generalmente rappresentata come una bella donna, con quattro braccia, seduta su un loto, vestita con vesti preziose e gioielli; ha un atteggiamento benevolo, è giovane ed ha un aspetto materno.
Il particolare più evidente dell'iconografia di Lakshmi è la sua costante associazione al fiore di loto; questo perché tale pianta, che nasce dal fango ma fiorisce sulla superficie dell'acqua, senza che il fiore porti traccia alcune del fango, è simbolo di purezza, forza spirituale, perfezione e autorità. Inoltre, la posizione seduta su un loto è un elemento ricorrente dell'iconografia di molte altre divinità induiste e buddhiste, ed indica che l'essere in questione trascende le limitazioni del mondo (il "fango" dell'esistenza) per muoversi liberamente in una sfera di purezza e spiritualità (come il loto sulla superficie dell'acqua).
Il veicolo di Lakshmi è il gufo (ulooka in sanscrito).

Tantrismo[modifica | modifica wikitesto]

A proposito di questo termine, "tantrismo", occorre subito chiarire due aspetti fondamentali per la comprensione dell'intero fenomeno.
Il primo è che il termine è del tutto sconosciuto alla tradizione classica indiana, non esiste in sanscrito. Esso fu infatti coniato in occidente[5][6] nel XX secolo da studiosi occidentali del mondo religioso indiano. Pare che il primo a menzionare "tantrismo" sia stato, nel 1918, l'avvocato britannico Sir John Woodroffe, che firmava con lo pseudonimo Arthur Avalon i suoi testi in qualità di orientalista.[7]
Invero, già dal secolo precedente gli orientalisti avevano individuato nel mondo hindu un insieme di fenomeni, culti e ideologie, che non riuscivano a rapportare albrahmanesimo, all'induismo classico fondato sui Veda e sulle Upaniṣad cioè. Essi riscontravano queste teorie e pratiche in testi che in buona parte adoperavano come suffisso il termine "tantra". Di qui i termini "tantrismo", "tantrico", e "tantra" nel senso di religione o setta religiosa.[7]
Per Herbert Guenther il "tantrismo" rappresenta "una delle nozioni più confuse e uno dei maggiori fraintendimenti che la mente occidentale abbia sviluppato".[

La tradizione vuole che siano 92 i tantra rivelati da Śiva[12], 28 Āgama e 64 Bhairava tantra. Accanto a questi Śaiva tantraoccorre poi aggiungere gli Śakta tantra, per le tradizioni religiose che invece considerano la Dea quale divinità principale; e molti altri insiemi di tantra che fanno parte di tradizioni minori.

"tantra" si ricollega alla radice verbale TAN, verbo che vuol dire "stendere", con riferimento a quanto si fa nella lavorazione dei tessuti. Il termine è perciò generalmente tradotto con "telaio", "ordito"[15], e quindi in senso lato, "opera", "testo"

·         Immanenza: l'universo e gli esseri umani sono permeati dell'energia divina, la śakti, personalizzata come una Dea.
·         Trasmissione: il tāntrika è un iniziato, il che implica la presenza di un maestro, il guru, e una trasmissione della dottrina (saṃpradāya) di maestro in maestro.
·         Segretezza: le dottrine e le pratiche hanno il carattere della segretezza.
·         Pūjā: il rituale di adorazione di una divinità è quello della pūjā, che è sempre tantrica nella sua struttura anche se rivolta a una divinità non tantrica.
·         Maṇḍala: il pantheon, sempre vasto, è organizzato in maṇḍala.
·         Mantra: l'oralità, la parola (vāc), assume un ruolo centrale in tutte le pratiche e riti, i mantra sono onnipresenti; molti di essi altro non sono che la forma fonica di divinità.
·         Yoga: esistenza di uno stretto legame con lo yoga[37].
E aggiunge: "Tuttavia si può ammettere che il Tantrismo sia una categoria a parte e lo si può definire in generale come una via pratica ai poteri sovrannaturali e alla liberazione; consiste nell'uso di pratiche e tecniche specifiche (rituali, corporee e mentali), che sono sempre associate ad una dottrina particolare."

 tantra è "liberazione dal legame"

 i praticanti del tantra più elevato dovrebbero possedere ampie visuali, rinunciando ai pensieri ristretti ed essere disposti a sacrificarsi al fine di promuovere il benessere altrui

A questo erano associati culti popolari che si svolgevano ai margini del mondo brahmanico, in segreto, e da questi ebbe probabilmente origine il mondo tantrico.[46]

« Il tantrismo, «brahmanizzato», ha «tantricizzato» l'induismo diffusamente, costituendone, per certi aspetti, il fondo segreto. »
(André Padoux, 2011, p. 34)

 le tradizioni tantriche che invece prediligono il culto della Dea, che si presenta con nomi e caratteristiche differenti, a volte anche ben contrastanti fra loro. Abbiamo, come dee più importanti: Tripurasundarī; Kālī, che fa parte di un gruppo di dieci dee, le Mahāvidyā (le dee della Grande Conoscenza); Durgā. 

] Il mondo ario era essenzialmente patriarcale, né è possibile riscontrare un culto della Grande Madre nella cultura vedica.[53] Queste tradizioni sono dunque molto probabilmente un'eredità delle popolazioni autoctone dell'India meridionale, delle popolazioni dravidicheo pre-dravidiche, come i munda; come aborigena è per esempio la devozione a una divinità sotto forma di adorazione, labhakti; come aborigena è la forma di culto più diffusa oggi in India, la pūjā.

« Gli Indo-europei portavano una società di struttura patriarcale, un'economia pastorale ed il culto degli dei del Cielo e dell'atmosfera, in una parola la "religione del Padre". Gli aborigeni preariani conoscevano già l'agricoltura e l'urbanesimo (la civiltà dell'Indo) e, in generale, partecipavano alla "religione della Madre". L'indusimo, come si presenta alla fine del Medioevo, rappresenta la sintesi di queste due tradizioni, ma con un accentuato predominio dei fattori aborigeni: l'apporto degli Indo-europei ha finito per essere radicalmente asiatizzato. L'indusimo significa la vittoria religiosa della tradizione locale. [...] Da questo punto di vista, il tantrismo prolunga e intensifica il processo di induizzazione incominciato dai tempi post-vedici. »
(Eliade, 2010, p. 334 e p. 194)
 i seguaci non adottano riti trasgressivi e utilizzano i mantra e lo yoga come mezzi per la liberazione

Strumento principale per la liberazione è il rito: i seguaci dello Śaivasiddhānta sono iper-ritualisti e presentano una devozione emozionale (bhakti) molto accentuata. 

Il cammino per la liberazione è aperto a tutte le classi sociali, ma inaccessibile alle donne, le quali possono soltanto beneficiare del percorso del proprio consorte.

l'introduzione nel mondo tantrico dello Haṭhayoga, sistema Yoga che contempla numerose posture (āsana), anche difficili, pratiche di purificazione del corpo e tecniche di meditazione complesse. La dottrina è non-dualista: tramite i metodi dello Haṭhayoga ci si può ricongiungere con Dio, Śiva, che è attivo nel mondo con la sua śakti, non venerata quindi come dea ma visualizzata come sessualmente unita a Śiva

Del Kula originario, come delle altre sette, non si sa molto. Questo nucleo evolse[66] dando luogo a quattro tradizioni, ciascuna coi propri Tantra e ciascuna col proprio pantheon, ma con le medesime concezioni metafisiche: sono non dualisti; e con un complesso di riti e pratiche yogiche somiglianti. Sono tradizioni śākta, essendo la divinità principale una Dea, personificazione della "energia divina" di Śiva. Śiva conserva pur sempre una supremazia, che però è più di ordine metafisico che devozionale, e la Dea è adorata sotto numerossissime forme, restando però una[67] e sovrana.

Culti delle quattro tradizioni del Kula sono culti trasgressivi e visionari, e in questo si differenziano molto da altre tradizioni. Trasgressivi sia per l'uso di sostanze e cibi ritenuti impuri dall'ortodossia brahmanica; sia per l'adozione di pratiche proibite, quali l'unione sessuale ritualizzata (tranne che nella tradizione del Dakṣiṇa-āmnāya, la più moderata fra le quattro). I culti visionari prevedono pratiche di meditazione complesse, sia su yantra, sia sulle icone adibite al culto e all'adorazione, la pūjā

Il tantrismo, nel fine che persegue in quanto insieme di dottrine, non si differenzia dagli altri movimenti religiosi hindu: è anch'esso una via per la liberazione (mokṣa) dal ciclo delle rinascite (saṃsāra), dalle sofferenza che l'essere in vita comporta. L'uomo vive in universo che è emanato e continuamente animato da Dio[77], il quale Dio può manifestare la sua potenza sia sotto forma di oscuramento (tirodhāna), essere cioè di ostacolo alla salvezza, sia concedendo la grazia (anugraha) nel mostrare le vie per la liberazione.[78]
Fra l'umano e il divino sussiste un isomorfismo per cui il corpo risulta permeato di forze sovrannaturali. Il corpo assume, nelle tradizioni tantriche, un'importanza nucleare[79] proprio per questa compenetrazione fra umano e divino, fra corpo e universo. La concezione non è certo nuova: già nei Veda è possibile rintracciare l'idea del corpo umano come microcosmo, e del macrocosmo come corpo; ma è proprio nel tantrismo che quest'aspetto si presenta come dato assolutamente caratteristico, e quasi ogni aspetto del mondo tantrico è inquadrabile in relazione al corpo.[80] Così recita una Upaniṣad dello Yoga:
« Nel corpo dell'adepto, / l'elemento Terra è situato / tra i piedi e le ginocchia; / la Terra è un quadrato / di colore giallo / e il suo mantra è LAM. / Là risiede Brahmā, / con quattro braccia, quattro volti, / splendenti come l'oro. »
(Yogatattva Upaniṣad, 86 e segg.; citato in Jean Varenne, 2008)
Per quanto concerne il sistema in sé, la via tantrica, più che essere una dottrina coerente, è un insieme di pratiche e ideologie, caratterizzato da una grande importanza dei rituali, da pratiche per la manipolazione dell'energia (śakti), con azioni talvolta considerate "trasgressive", dall'uso del mondano per accedere al sopramondano e dall'identificazione del microcosmo con il macrocosmo.[81]
Tale correlazione consentirebbe al tāntrika (l'adepto dei Tantra) di poter accedere, mediante delle precise tecniche, all'energia cosmica presente nel proprio corpo e quindi raggiungere la liberazione con questo corpo e in questa vita (jīvanmukti).
Il tāntrika cerca di utilizzare il potere divino che scorre in tutte le manifestazioni universali al fine di ottenere i propri risultati, siano essi spirituali, materiali o entrambi.[82]
I tāntrika considerano la guida di un guru un prerequisito indispensabile[83]. Nel processo di manipolazione dell'energia il praticante ha diversi strumenti a disposizione: tra questi lo Yoga, con pratiche anche estreme che portano a un controllo pressoché completo del proprio corpo; la visualizzazione e verbalizzazione della divinità attraverso i mantra, e la meditazione su di essi; l'identificazione e internalizzazione del divino, con pratiche meditative tendenti a una totale immedesimazione con una divinità[84].
Secondo la visione del mondo hindu, l'evoluzione del mondo è ciclica, e all'interno di ogni ciclo (detto kalpa) sussistono ere (dette yuga) nelle quali la storia principia da un'età dell'oro (Satya Yuga) per giungere ad ere cosmiche di progressivo declino spirituale. L'ultima era, detta Kali Yuga (quella in cui attualmente viviamo), è caratterizzata da ignoranza spirituale, diffusione di falsi dèi o ateismo, commistione delle caste, guerre e sovvertimento dei valori del dharma.
Gli adepti del Tantra ritengono che i Veda e la tradizione brahmanica non siano più adeguate in questa nostra era: l'uomo ha perso la capacità spirituale di servirsi di quella tradizione per conseguire la liberazione. Né il rito vedico, né l'introspezione avviata nell'epoca delle Upaniṣad e nemmeno i metodi dello Yoga classico sono ritenuti sufficienti a questo scopo. In alcune tradizioni tantriche è possibile persino ravvisare un disprezzo per gli asceti: nel Kulārṇava Tantra si ironizza sul fatto che questi girino nudi come gli animali, ma non per questo, come gli animali, raggiungono la liberazione.[85] Nel Guhyasamāja Tantra si può leggere:
« Nessuno riesce a ottenere la perfezione mediante operazioni difficili e noiose; ma la perfezione si può acquistare facilmente mediante la soddisfazione di tutti i desideri »
(Guhyasamāja Tantra; citato in Mircea Eliade, Lo yoga, Op. cit., p. 197)

Il guru, specie nelle tradizioni tantriche, è ben più che un maestro spirituale. Egli non si limita ad impartire la dottrina al discepolo (śiṣya) come un ordinario maestro potrebbe fare, per quanto accorato e devoto: il guru è come un dio (gurudeva) che grazie alla propria potenza spirituale (śakti) "trasmette" al discepolo la dottrina e gli oggetti della tradizione. Per esempio, un mantra non può essere appreso semplicemente ascoltandolo (né tantomeno apprendendolo da un testo): deve e può solo essere passato dal guru al discepolo (guru śiṣya paramparā).


















Fra i due si stabilisce una relazione intima che ha i caratteri della riservatezza, della devozione e dell'

Per esempio, la gurupādukā, l'impronta dei piedi del guru, va vista come il segno della presenza divina, e come tale adorata e omaggiata.

è una cerimonia piuttosto complessa. Il guru, quando ritiene essere giunto il momento, comunica al discepolo la decisione di introdurlo nella setta. Viene quindi organizzata una cerimonia con gli altri membri del cakra. Questa comincia con la recitazione di mantra e offerte alla Dea, quindi prosegue con la richiesta ritualizzata del guru al Signore del Cerchio (cakreśvara). Il discepolo viene interrogato e preparato, mentre prosegue l'adorazione alla Dea. L'iniziazione propriamente detta ha luogo con il posizionamento del discepolo su un maṇḍala appositamente tracciato sul suolo; un'aspersione; la trasmissione di un mantra personalizzato; l'imposizione di un nome nuovo; quindi l'iniziato offre doni agli astanti. La cerimonia prosegue con riti che includono il pasto e l'unione sessuale (maithuna).

L'iniziato, il tantrikā, continuerà la sua via verso la realizzazione spirituale (sādhana) e un giorno potrà diventare guru egli stesso. Toccherà quindi a lui perpetuare (saṃpradāya) la dottrina, in quella che è una successione di maestri (guru paramparā) che così tramandano la disciplina.


L'individuo è immaginato possedere una struttura complessa che convive col corpo fisico: è questo il "corpo yogico"[89]. Tale corpo yogico è costituito di canali (nāḍī) e centri (cakra o padma)[90], e in esso gioca un ruolo determinante una potenza non umana bensì divina, la kuṇḍalinī. Lungo uno dei canali principali, la suṣumnā, quello che verticalmente collega la regione perineale con la sommità del capo, la kuṇḍalinī, che normalmente si trova allo stato latente alla base del canale stesso, può risalire, con pratiche adeguate, verso l'alto conducendo così alla liberazione.[91]
Il filosofo Kṣemarāja (X-XI secolo), discepolo di Abhinavagupta ed esponente della scuola del Trika[92], nel commentare un passo degli Śivasūtra, così descrive la kuṇḍalinī quiescente:
« L'energia sottile e suprema è addormentata, attorcigliata come un serpente; essa racchiude in sé il bindu, e insieme l'universo intero, il sole, luna, astri e mondi. Ma essa è incosciente, come obnubilata da un veleno. »
(Kṣemarāja, Śivasūtravimarśinī, commento a II, 3; citato in Lilian Silburn, La kuṇḍalinī o l'energia del profondo, trad. di Francesco Sferra, Adelphi, 1997, p. 76)
Bindu è il seme maschile, la scintilla che può risvegliare la kuṇḍalinī. In questo caso bindu è anche simbolo di Śiva in quanto Coscienza.[93]


Il corpo yogico, fondamentale in quasi tutte le pratiche meditative e rituali, è ovviamente immateriale, è una struttura somatica inaccessibile ai sensi che l'adepto crea immaginandola, visualizzandola. Del resto molti culti tantrici sono culti visionari.

Per evitare questa confusione, molti autori preferiscono servirsi del termine "Kuṇḍalinī Yoga".[94]


Secondo una interpretazione classica, il termine haṭhayoga vuol dire letteralmente: unione (yoga) del Sole (ha) e della Luna (ṭha); e questa lettura risponde in pieno alle dottrine tantriche, per le quali la liberazione è il ricongiungimento della śakti, presente nell'individuo come kuṇḍalinī, con l'assoluto, Śiva, immaginato risiedere nell'ultimo cakra.[95] È da notare che in questo simbolismo, Śiva è rappresentato dalla Luna: nell'iconografia classica del Dio, bianco è il colore della sua pelle, bianco come il crescente di Luna che porta fra i capelli, bianco come il colore dello sperma, e sia per "Luna" sia per "sperma" è anche utilizzato il termine soma, il succo sacrificale, e il Dio di cui si parla nei Veda

 Quando non emette, la kuṇḍalinī assume la forma di pura energia quiescente (śaktikuṇḍalinī). In seguito diventa energia vitale o del soffio (prāṇakuṇḍalinī). Anche giunta al punto estremo dell'emissione, essa rimane la kuṇḍalinī suprema, chiamata brahman supremo, firmamento di Śiva e sede del Sé. I movimenti alterni di emanazione e riassorbimento non sono che l'emissione del Signore. »
(Abhinavagupta, Tantrāloka 138-41ab; citato in Lilian Silburn, La Kuṇḍalinī o l'energia del profondo, trad. di Francesco Sferra, Adelphi, 1997, p. 46)
In un testo precedente (IX secolo circa), il Vijñānabhairava Tantra[98] ("Conoscenza del Tremendo"[99]), è presentato concisamente un compendio di tecniche yogiche; qui un esempio di uso del controllo della respirazione per il risveglio della kuṇḍalinī:
« Il soffio ascendente esce, il soffio discendente entra, di sua propria volontà, in forma sinuosa. La Grande Dea si estende dappertutto Suprema-Infima, supremo luogo sacro. »
(Vijñanabhairava, 152, a cura di Attilia Sironi, introduzione di Raniero Gnoli, Adelphi, 2002)

proverbi tantrici: "ci si deve rialzare con quello che ci fa cadere" e "lo stesso veleno che uccide diventa l'elisir della vita se usato dal saggio"

Il maṇḍala, o lo yantra, è utilizzato in diversi modi: può essere tracciato sul suolo, per lo svolgimento di alcune cerimonie che ne prevedono l'uso (come le iniziazioni); può essere disegnato o dipinto su stoffa o inciso su pelle o metallo, per realizzare uno strumento di meditazione o anche di adorazione di una divinità (spesso la Dea) che vi viene fatta temporaneamentediscendere.[108] Esistono, inoltre, anche yantra tridimensionali. Così un testo della scuola Kaula:
« La differenza fra lo yantra e la divinità che esso simboleggia è simile alla differenza tra un corpo e l'anima che lo abita. »
(Kaulāvalīam; citato in Alain Daniélou, Miti e dèi dell'India, traduzione di Verena Hefti, BUR, 2008, p. 396)
I mantra, che esistono sin dall'epoca vedica, rivestono nelle tradizioni tantriche un'importanza particolare, e per la loro onnipresenza nel rituale, e per il loro senso profondo. Mentre nel brahmanesimo il mantra è l'inno invocato nelle oblazioni o la formula rituale, nel contesto tantrico il mantra si arricchisce di altri significati, divenendo spesso un enunciato privo di senso apparente, denso di "energia", adoperato anche per scopi magici oltre che religiosi.

pesso, ma non sempre, un mantra è inteso come la forma fonica di una divinità, e quando così, è ritenuto sacro. Ad esempio, il mantra della dea Tripurasundarī è:
« HA SA KA LA HRĪṂ, HA SA KA HA LA HRĪṂ, SA KA LA HRĪṂ »
Esso è costituito di quindici sillabe ordinate in tre gruppi. Queste sillabe sono poi a loro volta mantra, mantra monosillabici detti bīja ("seme"), ognuno portatore di un particolare significato o essi stessi forma fonica di una divinità, e possono essere raggruppate per costruire così mantra più complessi, come quello riportato nell'esempio.

Il bīja SAUḤ è, per esempio, il mantra della Dea suprema del Trika, composto dai tre fonemi S ("l'Essere"), AU ("la congiunzione delle tre energie di Śiva"), ("l'emissione cosmica", il visarga). L'interpretazione è del filosofo Abhinavagupta: "L'universo, grazie alla presa di coscienza delle tre energie, è seme che sta per essere emesso nel grembo di Bhairava[113]". SAUḤ è quindi l'universo nel suo stato nascente: in questo senso il mantra è anche noto come «il seme del cuore di Śiva». Esso è adoperato nelle pratiche yogiche per l'ascesa della kuṇḍalinī[114], e così André Padoux commenta:
« Ne consegue un'esperienza cosmica di salvezza nella quale si combinano, in modo decisamente tantrico, identificazione vissuta con la parola nella sua potenza corporea e cosmica e apprensione intellettuale, se non di una realtà, per lo meno di una costruzione metafisica. »
(André Padoux, 2011, p. 146)
Il bīja di certo più noto è Oṃ, che può essere impiegato da solo, come espressione fonica dell'Assoluto, o adoperato come formula iniziale dei mantra di invocazione, come ad esempio nell'invocazione alla Dea Kālī: Oṃ Kalyai namaḥ.
Per approfondire, vedi Oṃ.

La recitazione ripetitiva di uno stesso mantra è detta japa, pratica spesso accompagnata da una precisa gestualità anch'essa densa di significati, le mudrā, e adoperata in molti contesti, quali la pūjā; i riti collettivi; o anche come ordinario atto di devozione a una particolare divinità; oppure, connessa alla respirazione, nelle pratiche meditative.[115] L'esempio più eclatante di tecnica meditativa con mantra è quello della cosiddetta "recitazione non recitata" (ajapājapa), nella quale il mantra HAṂSA non è in realtà pronunciato, ma articolato con i flussi dell'inspirazione e dell'espirazione. Questo mantra è costituito dai bīja HA e SA che vengono qui intesi come l'espressione delle frasi ahaṃ saḥ ("io sono Lui") e, in senso inverso, so 'haṃ ("Egli è me", con riferimento a Śiva): la funzione fisiologica della respirazione è qui strettamente connessa con la parola, il tutto inteso come un'espressione complessa dell'identificazione con Dio



I riti sessuali potrebbero essere emersi agli inizi del Tantra induista anche come un metodo pratico di generare fluidi corporei trasformativi per costituire un'offerta vitale alle divinità tantriche, oppure essersi evolute da cerimonie di iniziazione dei clan che comprendevano la transazione di fluidi sessuali.[117]
Nelle tradizioni del Kaula, per esempio, l'iniziato di sesso maschile era inseminato o insanguinato con le emissioni sessuali della consorte femmina, talvolta frammiste al seme di un guru, ed era così trasformato in figlio del clan (kulaputra) per grazia della consorte; si pensava infatti che il fluido del clan (kuladravya) o nettare del clan (kulāmṛita) scorresse naturalmente dalla sua pancia. Sviluppi successivi del rito enfatizzavano l'importanza della beatitudine e dell'unione divina, che sostituirono le connotazioni più corporee delle forme più antiche. Sebbene in Occidente il Tantra sia pensato come coincidente con i riti sessuali, solo una minoranza di sette vi fa ricorso, e nel tempo per lo più questi riti hanno subito un processo di sublimazione

 È però possibile affermare che tratto comune di tutte le tradizioni tantriche è la piena accettazione della varietà del mondo, del piacere in generale e del desiderio sessuale o amoroso (kāma) in particolare. Del resto in India il sesso non è certo un'attività peccaminosa, anche se il perseguire il piacere, l'esserne in qualche modo dipendente cioè, continua a legare l'individuo al mondo ostacolando la liberazione.[118] Questo contrasto fra il sesso e il fine spirituale delle liberazione è risolto, in alcune tradizioni tantriche, guardando all'eros come la via maestra per accedere al divino, eros qui inteso come principio presente in diverse forme, non solo nei riti e nelle pratiche, ma anche nelle speculazioni metafisiche, nella teologia, nella mitologia, nei pantheon e nello yoga.[119]
Una caratteristica comune ai pantheon tantrici è la coppia (yamala): ogni dio è compagno di una dea, per esempio Śiva conPārvatī, o anche con Durgā o Umā; Viṣṇu con Lakṣmī; Bhairava con Tripurasundarī; Kṛṣṇa con Rādhā; eccetera. Anche nelle tradizioni śākta, dove è la Dea a essere considerata Essere Supremo (per esempio Kālī o Kubjikā), pur se meno appariscente, è presente la divinità maschile, quasi sempre Śiva.[120]

La coppia divina è in realtà, specie nelle dottrine moniste del Kashimir, intesa come l'unica divinità suprema, vista nei due aspetti trascendente (il maschile) e immanente (il femminile). La Śakti, il polo femminile, altro non è se non la potenza del Dio[121], il suo aspetto immanente, la forza vivificante che opera nel mondo.[120] Śakti è presente nell'essere umano comekuṇḍalinī, energia quiescente, che l'individuo può risvegliare e utilizzare per fini spirituali. Śakti è presente in ogni donna, nel senso che ogni donna è ritenuta rappresentare e possedere naturalmente l'energia divina. Da ciò deriva il posto in un certo senso privilegiato che la donna occupa nelle tradizioni tantriche, cosa che non è possibile riscontrare nel brahmanesimo. Di più, secondo la tradizione vaiṣṇava del Sahajiyā (tuttora seguita nel Bengala presso i Bāul), e l'uomo e la donna sono ritenuti rappresentazioni concrete della coppia divina, in questo caso Kṛṣṇa e Rādhā, e l'unione sessuale ritualizzata è mezzo per il raggiungimento del samādhi.[122]
La kuṇḍalinī, forma concreta della Śakti,
si trova normalmente inattiva nell'individuo, arrotolata (è questo il significato letterale del termine) nella zona perineale del corpo yogico. Secondo le dottrine yogiche del Tantra, questa kuṇḍalinī ha come meta suprema, proprio in quanto Śakti, il ricongiungimento con la controparte maschile, Śiva: è la riunione del maschile e del femminile, il ripristino dell'androginità originaria, la realizzazione nel microscosmo umano dell'Essere Supremo. Nei testi che spiegano le tecniche yogiche per la risalita della kuṇḍalinī, il linguaggio adoperato è ricco di metafore sessuali.[123]
Così si esprime Abhinavagupta a proposito dell'unione:
« La fusione, quella della coppia Śiva e Śakti, è l'energia della felicità, da cui emana tutto l'universo: realtà al di là del supremo e del non-supremo, essa è chiamata Dea, essenza e Cuore [glorioso]: è l'emissione, il Signore Supremo. »
(Abhinavagupta, Tantrāloka III, 68-69; citato in Lilian Silburn, La Kuṇḍalinī o l'energia del profondo, trad. di Francesco Sferra, Adelphi, 1997, p. 45)
E Jayaratha, aggiunge la Silburn, nel suo commento a questo passo[124] parla di unione della kuṇḍalinī con Śiva come sfregamento che dà reciproco godimento.

Il cakra-pūjā è una cerimonia religiosa di gruppo: cakra ("cerchio") indica qui il circolo di cui fanno parte i membri di una comunità tantrica. Il rito avviene di notte: attorno a un trono dedicato alla Dea, gli officianti maschi si dispongono a ferro di cavallo. Il Signore del Cerchio assegna a ogni uomo una donna (a sorte o seguendo un piano solo a lui noto), che andrà a sedersi alla sinistra del compagno. Il rito prosegue con offerte alla Dea, recitazione di mantra e meditazioni secondo un rituale complicato, al termine del quale ogni coppia si apparta.[126]
Un rito molto esplicito è la yoni-pūjā ("adorazione della vagina"). Il rito fa parte di una tradizione vaiṣṇava ed è descritto nello Yoni Tantra. Una donna, opportunamente preparata e ornata, è collocata prima su un maṇḍala e poi fatta accomodare sulla coscia sinistra dello yogin che officia il rito. Costui procede con la cerimonia facendole bere del vino, recitando mantra e massaggiandole la vagina con pasta di sandalo, quindi si unisce a lei. Le secrezioni dell'eiaculazione sono poi offerte come oblazione alla Dea. Diversi altri testi prescrivono l'unione sessuale rituale, talune molto particolari, come quella che si pratica di notte su cadaveri.[127]
L'unione sessuale e l'uso del vino per fini rituali sono pratiche ritenute non ortodosse nel brahmanesimo, anzi proibite; e proibito al brahmano è in ogni caso il consumo di bevande alcooliche, di carne e pesce, stante al Manusmṛti (la "Legge di Manu"), testo fondamentale del codice e dell'etica hindu. Nelle tradizioni tantriche cosiddette della "mano sinistra" (vāmācāra) sono invece trasgredite proprio queste raccomandazioni, e la questione è nota come le pratica delle «cinque emme»: maithuna (unione sessuale), māṃsā (carne), madya (vino), matsya (pesce), mudrā (cereali arrostiti).[128]
E a proposito del maithuna, questo Tantra della tradizione Kaula (XII secolo circa) sottolinea il significato spirituale dell'amplesso:
« Per chi non sa questo, la propria consorte a cui deve unirsi giace incosciente, ma così conosce, sa che essa è la consorte interiore, ben desta, la shakti con cui compiere la propria unione. L'effluvio di beatitudine che è prodotto dall'amplesso della coppia divina del Supremo Shiva e la Suprema Dea, questo è l'unico e vero significato dell'unione sessuale. Chi in altro modo si unisce a una donna, non è altro che un animale che copula. »
(Kulārṇava Tantra, V, 111-112; citato in Cattive tradizioni. Estratti dalla via della mano sinistra, a cura di Fabio Zanello, Coniglio editore, Roma, 2008)
Quando eseguito in accordo al Tantra il rituale sessuale culmina in una sublime esperienza di infinita consapevolezza, per entrambi i partecipanti. I Tantra specificano che il sesso ha tre finalità ben distinte - procreazione, piacere e liberazione. Coloro che cercano la liberazione evitano l'orgasmo frizionale per una forma più alta di estasi, e la coppia che prende parte al rituale si immobilizza in un abbraccio statico; diversi rituali sessuali sono raccomandati e praticati, comprendendo riti purificatori e preparatori elaborati e meticolosi. L'atto risulta in un equilibrio delle energie che scorrono nell'ida prāṇico nel corpo yogico di entrambi i partecipanti, il suṣumnā si risveglia e la kuṇḍalinī risale dentro di esso. Questo può infine culminare nel samādhi, dove le rispettive individualità di ciascuno sono completamente dissolte nella coscienza cosmica. I praticanti interpretano l'atto su molteplici livelli; i partecipanti maschio e femmina unendosi fisicamente rappresentano il Dio e la Dea, il principio maschile e quello femminile, e al di là del corpo fisico le due energie si fondono generando un unico indistinto.[83].

molti oggi lo vedono invece come una celebrazione dell'uguaglianza sociale, della sessualità, del femminismo e della cultura del corpo[
Woodroffe era apologetico nei confronti del Tantra, difendendolo contro le innumerevoli critiche e presentandolo come un sistema etico-filosofico compatibile con i Veda e i Vedānta[


britannico, che si ispirò allo yoga tantrico per promulgare pratiche di magia sessuale; Omar Garrison, che nel 1964 pubblicò Tantra. The Yoga of Sex, contribuendo alla diffusione dell'idea del sesso come componente fondamentale del fenomeno tantrico e come "salvezza" per l'Occidente.[132][133]
Il padre fondatore della psicologia analitica, Carl Gustav Jung (1875 – 1961), dedicò molti saggi al simbolismo del maṇḍala, considerando l'India come il paese dove i simboli dell'inconscio collettivo si manifestano più chiaramente.[134]

Hugh Urban, Zimmer, Julius Evola, e Eliade vedevano il Tantra come «la culminazione di tutto il pensiero indiano: la forma più radicale di spiritualità e il cuore arcaico dell'India aborigena», e lo consideravano come la religione ideale dell'era moderna. Tutti e tre vedevano il Tantra come «il cammino più "trasgressivo" e "violento" verso il sacro»[135]. Zimmer elogiò il Tantra per il suo atteggiamento affermativo nei confronti del mondo:
« Nel Tantra, l'approccio non è quello del Nay (arcaismo per "No") ma dello Yea (arcaismo per "Sì") [...] l'atteggiamento verso il mondo è affermativo [...] L'uomo vi si deve avvicinare attraverso e per mezzo della natura, non con il rifiuto della natura" »
(Urban, 2003, p. 168)
 il Tantra cominciò a essere visto come un "culto dell'estasi" che combina spiritualità e sessualità, in modo da agire come una forza correttiva dell'atteggiamento repressivo della cultura occidentale nei confronti del sesso.
All'interno della occidentalissima New Age, la visione del Tantra, diventato ormai popolare in Occidente, subì un'ulteriore e significativa trasformazione, dando luoghi a fenomeni come il neotantrismo, corrente invero molto differente dalla tradizione tantrica originale indiana. Per molti lettori occidentali moderni, "Tantra" è diventato un sinonimo di "sesso spirituale" o "sessualità sacra", il concetto che il sesso stesso debba essere santificato in quanto capace di elevare la coppia ad un piano di spiritualità superiore.

Shambhavi Saraswati, direttrice spirituale dell'organizzazione no profit "Jaya Kula", riporta una descrizione sintetica ma efficace della differenza tra Tantra e Neotantra: «Il neo-Tantra ritualizza il sesso. Il vero Tantra sessualizza il rituale»






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