ॐ
Presso la religione induista, Ganesha o Ganesh (Sanscrito गणेश IAST Gaṇeśa) è una delle rappresentazioni di dio più
conosciute e venerate; figlio primogenito di Śiva e Parvati,
viene raffigurato con una testa di elefante provvista
di una solazanna, ventre pronunciato
e quattro braccia, mentre
cavalca o viene servito da un topo,
suo veicolo. Spesso è rappresentato seduto, con una gamba sollevata da terra e
ripiegata sull'altra, nella posizione della Lalitasana.
Tipicamente, il suo nome è preceduto dal titolo di rispetto induista, Shri.
Il culto
di Ganesha è molto diffuso, anche al di fuori dell'India; i devoti di
Ganesha si chiamano Ganapatya.
Ganesha è
infatti il simbolo di colui
che ha scoperto la Divinità in se stesso.
Egli rappresenta il perfetto equilibrio tra energia maschile (Śiva) e femminile (Shakti), ovvero tra forza e dolcezza, tra potenza e bellezza; simboleggia inoltre la capacità discriminativa che permette di distinguere la verità dall'illusione, il reale dall'irreale.
Egli rappresenta il perfetto equilibrio tra energia maschile (Śiva) e femminile (Shakti), ovvero tra forza e dolcezza, tra potenza e bellezza; simboleggia inoltre la capacità discriminativa che permette di distinguere la verità dall'illusione, il reale dall'irreale.
Una descrizione di tutte le
caratteristiche e gli attributi di Ganesha si può trovare nella Ganapati
Upaniṣad (una Upaniṣaddedicata a Ganesha) del rishi Atharva, nella quale Ganesha è identificato con il Brahman e con Ātman.[2] In
questo inno, inoltre, è contenuto uno dei mantra più
famosi associati a questa divinità: Om Gam
Ganapataye Namah (lett. Mi
arrendo a Te, Signore di tutti gli esseri).
Nei Veda si trova anche una
delle più salmodiate preghiere attualmente attribuite a Ganesha, che
costituisce l'inizio del Ganapati Prarthana:
Gaṇānāṃ
tvā ganapatiṃ havāmahe kavim kavīnām upamaśravastamam
Ganesha è una
divinità molto amata ed invocata, poiché è il Signore del
buon auspicio che dona prosperità e fortuna, il Distruttore
degli ostacoli di ordine materiale o spirituale; per questa ragione se ne invoca
la grazia prima di iniziare una qualunque attività, come ad esempio un viaggio,
un esame, un colloquio di lavoro, un affare, una cerimonia, o un qualsiasi
evento importante. Per questo motivo è tradizione che tutte le
sessioni di bhajan (canti devozionali)
comincino con una invocazione a Ganesha, Signore del "buon inizio"
dei canti.
Ogni elemento del corpo di
Ganesha ha una sua valenza ed un suo proprio significato:
·
la testa
d'elefante indica fedeltà, intelligenza e
potere discriminante;
·
il fatto che abbia una
sola zanna (e l'altra spezzata) indica la
capacità di superare ogni dualismo;
·
le larghe
orecchie denotano saggezza, capacità di
ascolto e di riflessione sulle verità spirituali;
·
la proboscide ricurva
sta ad indicare le potenzialità intellettive, che si manifestano nella facoltà
di discriminazione tra reale ed irreale;
·
sulla fronte ha
raffigurato il Tridente (simbolo
di Śiva), che simboleggia il Tempo (passato, presente e futuro) ne attribuisce a Ganesha la padronanza;
·
il ventre obeso è tale
poiché contiene infiniti universi, rappresenta inoltre l'equanimità, la
capacità di assimilare qualsiasi esperienza con sereno distacco, senza
scomporsi minimamente;
·
la gamba che
poggia a terra e quella sollevata indicano l'atteggiamento che si dovrebbe
assumere partecipando alla realtà materiale e a quella spirituale, ovvero la
capacità di vivere nel mondo senza essere
del mondo;
·
le quattro
braccia di Ganesha rappresentano i
quattro attributi interiori del corpo sottile,
ovvero: mente, intelletto, ego, coscienza
condizionata;
·
in una mano brandisce un'ascia, simbolo della recisione
di tutti i desideri, apportatori di sofferenza;
·
nella seconda mano stringe un lazo,
simbolo della forza che lega il devoto all'eterna beatitudine del Sé;
·
la quarta mano tiene un fiore
di loto (padma), che simboleggia
la più alta meta dell'evoluzione umana.
Ganesha e il Topo[modifica | modifica wikitesto]
La cavalcatura di Ganesha è un
piccolo topo (Mushika o Akhu), che
rappresenta l'ego, la mente con
tutti i suoi desideri, la bramosia dell'individuo; Ganesha, cavalcando il
topo, diviene padrone (e non schiavo) di queste tendenze, indicando
il potere che l'intelletto e la discriminazione hanno sulla mente.
Inoltre il topo (per natura estremamente vorace), viene spesso raffigurato a
fianco di un piatto di dolci, con lo sguardo rivolto a Ganesha mentre tiene un
boccone stretto tra le zampe, come in attesa di un suo ordine; rappresenta la
mente che è stata completamente assoggettata alla facoltà superiore
dell'intelletto, la mente sottoposta ad un ferreo controllo, che
fissa Ganesha e non si accosta al cibo se non ne riceve il permesso. C'è anche
un altro significato di Akhu, l'astuzia del topo che accompagnata alla saggezza
dell'elefante fa compiere grandi imprese e, inoltre, tanto l'elefante quanto il
topo, passano dappertutto, quasi senza incontrare ostacoli: uno per
via della sua mole e l'altro, per la sua minutezza. Ganesha, infatti, è colui
che aiuta a superare gli ostacoli e viene venerato prima di iniziare qualsiasi
impresa.
« Un
elefante ha, di norma, due zanne. Anche la mente
propone spesso due alternative: quella buona e quella cattiva, l'eccellente e
l'espediente, il fatto e la fantasia che la porta fuori strada. Per fare qualsiasi cosa, la mente deve comunque diventare
determinata. La testa di elefante del Signore Ganesha ha quindi una sola
zanna per cui Egli è chiamato "Ekadantha", che significa
"Colui che ha una sola zanna", per ricordare ad ognuno che si deve possedere la determinazione mentale. »
|
Sposato o celibe?[modifica | modifica wikitesto]
È interessante notare come,
secondo la tradizione, Ganesha sia stato generato dalla Madre Parvati senza
l'intervento del marito Śiva; infatti Śiva, essendo eterno (Sadashiva),
non sentiva alcuna necessità di avere figli. Così Ganesha
nacque dall'esclusivo desiderio femminile di Parvati di creare. Di
conseguenza, la relazione di Ganesha con la propria madre è unica e speciale.
Questa devozione è la ragione
per la quale la tradizione dell'India del sud lo rappresenta come celibe (v.
l'aneddoto Devozione alla Madre). Si dice che Ganesha,
ritenendo sua madre Parvati la donna più bella e perfetta dell'universo,
abbia esclamato: "Portatemi una donna bella come lei ed io la
sposerò".
Nell'India del nord, invece,
Ganesha è spesso raffigurato sposato alle due figlie di Brahma: Buddhi (intelletto)
e Siddhi (potere
spirituale). In altre raffigurazioni le sue consorti sono: Sarasvathi (dea
della cultura e dell'arte) e Lakshmi (dea
della fortuna e della prosperità), a simboleggiare che queste
qualità accompagnano sempre colui che ha scoperto la propria Divinità
interiore.
|
« Vaiśvānara, lo stato di veglia è
indicato dalla suono A che è il primo elemento in quanto ottiene o in
« Lo stato
di sogno, Taijasa, è indicato quanto è primo. Ottiene ciò che desidera e risulta primo colui che così
conosce. » dal suono U che è il secondo elemento
per il fatto che è più in alto [di quello precedente] o perché partecipa dagli altri due [in cui sta in mezzo]. Chi lo conosce è in armonia col Tutto, nessuno dei suoi
discendenti ignorerà il Brahman »
La sacra
sillaba viene quindi analizzata dividendola nei quattro vissuti che
costituiscono lo stato di coscienza: veglia, sogno e sonno senza
sogni, nonché, il quarto stato, turīya, al di là di ogni definizione è l'Ultimo, il Brahman.
l'Oṃ viene indicato come suono
originario (VI,3) e viene infine raccomandata la pratica della meditazione
dell'Oṃ come Sé.
Egli deve
sempre pronunciare "Oṃ!" alla fine e all'inizio della
recitazione dei Veda, perché se
non c'è prima, [la recitazione dei Veda] si perde, se non c'è dopo, questa si
dissolve. »
|
(Manusmṛti,
II,85)
|
tre aspetti in uno che
possono essere simboleggiati dall'Oṃ.
ॐ
|
Aspetto divino
|
Mondi
|
Stato di coscienza
|
|||
A
|
Creazione
|
Tamas
|
Terra
|
Veglia
|
||
U
|
Conservazione
|
Rajas
|
Atmosfera
|
Sonno
|
||
M
|
Dissoluzione
|
Sattva
|
Cielo
|
Sonno profondo
|
||
Totalità indifferenziata
|
Come si può vedere dalla
tabella, esiste anche un quarto
suono: esso, però, è trascendentale e
consiste nel silenzio che segue i tre suoni del mantra. È un "suono
silenzioso", un momento di assoluta contemplazione che
rappresenta l'immanifesto, la condizione primordiale dell'Essere che precede la
manifestazione.
Il mantra Aum deve essere pronunciato,
con concentrazione, in un modo ben preciso e con energia:
·
La A- deve originarsi dalla regione dell'ombelico ed emergere
dalla gola;
·
La U- la si pronuncia rovesciando la lingua;
·
La M- termina sulle labbra e la vibrazione termina sulla
sommità del capo.
Lo
studio della Tarda veda mi dona l’ Unità con il signore Brahman (devanāgarī ब्रह्मन्, lett. "sviluppo") è un termine sanscrito all'origine di molteplici significati nelle religioni vedica, brahmanica e induista.
« Lo stato di sonno profondo, prājña è indicato dal suono M che è il terzo elemento, in quanto crea o dissolve. Colui che conosce questo penetra questo universo facendolo
suo »
« Il quarto non corrisponde ad un elemento è non misurabile
è al di là della manifestazione e non agisce; è calmo e non duale. Tale è la sillaba Oṃ, in verità è l'Ātman colui che così conosce
penetrando con l' Ātman [individuale] l' Ātman [universale] »
Nessun
ostacolo
Felicità in
ogni luogo in ogni circostanza
« Questa sillaba esprime l'assenso. Quando si vuole
dare l'assenso a qualcosa si pronuncia Oṃ. E ciò a cui si dà
l'assenso verrà realizzato. Colui che conosce questo venera udgītha come la sillaba Oṃ realizzerà i suoi desideri »
5 gravi
peccati
Devoto
liberato da tutti i peccati recitando alla sera e alla mattina
4 mete della
vita umana
“ darta Ātman carma moscia “ …..
Panisciab 1000
modca otterrà qualunque fine cosa desiderata
Recita per
tutto il giorno
Memoria
8 Brillante
come il sole
Grande fiume
Statua Signore ganecsia liberato da tutti peccati e diverrà onniscente
Saggio
artvuana
« La parola
è il ṛk (Ṛgveda), il soffio vitale è il sāman (Sāmaveda), l'udgītha è la sillaba Oṃ . Parola e soffio vitale formano una
coppia così come il ṛk con il sāman »
Saggio artvana
Ramoscelli
bagnati nel ghi
« Egli è l'Ātman privo di difetto corrispondente ad Oṃ guardandone gli elementi che lo costituiscono. Gli elementi
che lo costituiscono corrispondono alle essenze e le essenze corrispondono agli
elementi che lo costituiscono, ossia ai suoni A U M. »
Oṃ (ॐ)
simbolo dell'Oṃ, il più sacromantra induista. Questo simbolo ॐ deriva dall'unione di due caratteri del devanāgarī: ओ ('o') + ँ ('m' nasale) riportati in corsivo. Risultando ildevanāgarī una scrittura non precedente all'VIII secolo d.C. questo
simbolo è di gran lunga posteriore alla sillaba Oṃ presente in
testi anteriori almeno al VI secolo a.C. (romanizzato anche
come Oṁ[1], Óm e Aum), è un
termine indeclinabile sanscrito che con
il significato di solenne affermazione è posto all'inizio di buona
parte della letteratura religiosa indiana.
« Colui che non conosce
la sillaba imperitura del Veda, quel punto supremo presso il quale vivono tutti
gli Dei, che cosa egli ha a che fare con il Veda? Solo coloro che la conoscono
siedono qui pacificamente riuniti »
·
« Occorre venerare il canto liturgico (udgīta)
come fosse la sillaba Oṃ con Oṃinfatti si inizia il canto liturgico. Ora
spiegheremo »
Pace pace pace
·
4
·
·
Mille volte paniscab
·
Inno al momento della morte
·
Ganescia con fili di tenera erba
·
1000 modaca
·
Insegnare a 8 eruditi
·
Statua sul fiume
·
Oniscente
·
Om gana iamà
I mantra
nell'Induismo e nelle tradizioni tantriche
La vita di un devoto hindu
è pervasa dalla recitazione dei mantra,
pratica che lo accompagna in vari momenti della vita e del quotidiano per fini
che sono sia sacri (rituali o soteriologici) sia profani (utilitaristici o
anche magici), come per esempio: ottenere
la liberazione (mokṣa); onorare
le divinità (puja); acquisire poteri sovrannaturali (siddhi);
comunicare con gli antenati; influenzare
le azioni altrui; purificare il corpo; guarire
dai mali fisici; assisterlo nei riti; eccetera[10]. Ogni mantra va usato nel
modo corretto, e a secondo del modo può dare differenti risultati:
« I mantra 'comprovati' danno risultati sicuri entro un tempo
determinato. I mantra 'che aiutano' danno buoni
risultati se vengono ripetuti nel rosario, o se li si impiega per
accompagnare le oblazioni. I mantra 'realizzati' danno risultati immediati. I mantra
'nemici' distruggono quelli che vogliono usarli. »
|
(Mantra-Mahodadhi, 24-23,
citato in A. Daniélou, Miti e dei dell'India, Op. cit., p. 381)
|
Questi usi e forme dei mantra
non appartengono alla tradizione vedica, dove, come si è detto, il mantra era
un inno recitato dal brahmano durante
le cerimonie liturgiche, utilizzato quindi per invocare la divinità o influire
magicamente sul mondo, ma sono successivi. È soprattutto nell'ambito tantrico (sia
induista sia buddhista) che i mantra si sono diffusi e hanno acquisito quei
caratteri che oggi in India è dato
di cogliere. Nelle tradizioni tantriche i mantra associati alle divinità sono
considerati la forma fonica della divinità stessa. Altri
mantra rappresentano, per esempio, parti del corpo o del cosmo.[11].
·
Come mantra, il più sacro e
rappresentativo della religione induista, è oggetto di
riflessioni teologiche e filosofiche, nonché strumento di pratica religiosa e meditativa.
Secondo Jean C. Heesterman[8] il tema
del Brahman è
collegato, nelle quattro raccolte degli inni dei Veda alla
contesa verbale, ovvero al rito del Brahmdoya propria
della cultura vedica con
particolare riferimento al sacrificio del cavallo (aśvameda).
In questo contesto, prima del sacrificio i due officianti si sfidavano
con domande enigmatiche, colui che riusciva a risolverle affermava di sé
stesso:
(SA)
« brahmayāṃ vācaḥ paramaṃ vyoma »
|
(IT)
« questo brahman è il
cielo più alto della parola »
|
Heesterman ricorda come queste
contese non erano affatto pacifiche, il
concorrente che insisteva a sfidare il vincitore con ulteriori enigmi avrebbe
pagato con la sua testa i suoi affronti.
Quindi il termine Brahman originerebbe
da una figura sacerdotale dell'India vedica vincitore
nelle gare sacrificali poetico-enigmatiche. Con l'ingresso della
letteratura in prosa dei Brāhmaṇa si
osserva, a partire dal X secolo a.C., un radicale cambiamento: al rituale
agonistico si sostituisce il rituale rigidamente codificato e pacifico.
« Questo
cambiamento fondamentale è espresso in modo interessante in un mito
ritualistico che narra della competizione sacrificale decisiva tra Prajāpati e Mṛtyu, o morte (Jaiminīya Brāhmaṇa,
2,69-2,70). Prajāpati conquista la vittoria finale perché riesce a
"vedere" l'analogia, che gli consente di assimilare la panoplia sacrificale
dell'avversario e di eliminarlo quindi in maniera definitiva. Conclude il testo: "da
allora non vi furono più contese sacrificali »
|
(Jean C. Heesterman. Op.cit. pag.57)
|
Nel contesto dei Brāhmaṇa il Brahman da
espressione dell'"enigma cosmico" oggetto di competizione
sacerdotale, diviene la stessa formula sacrificale oggettiva e
trascendente che si concretizza nel rituale.
Come evidenzia David
M. Knipe[9] la divinità
che incarna e centralizza questo processo nei Brāhmaṇa è Prajāpati che
lega l'antico Puruṣa vedico,
ovvero colui che istituisce il sacrificio, l'impersonale Brahman (potere
della formula sacra) e infine il dio personale Brahmā.
(SA)
« taṃ yajñam barhiṣi praukṣan puruṣaṃ jātam agrataḥ tena
devā ayajanta sādhyā ṛṣayaś ca ye tasmād yajñāt sarvahutaḥ sambhṛtam
pṛṣadājyam paśūn tāṃś cakre vāyavyān āraṇyān grāmyāś ca ye »
|
(IT)
« Quel Puruṣa, nato ai primordi, essi [gli Dei] lo aspersero
come vittima sacrificale sull'erba. Con lui gli Dei, i Sādhyā e i
cantori compirono il sacrificio. Da quel sacrificio
completamente offerto fu raccolto il burro coagulato: esso divenne animali,
quelli dell'aria, quelli della foresta e quelli dei villaggi »
|
Così, ad esempio, il Samāvidhāna
Brāhmaṇa (I,1,3)
(SA)
« brahma ha vā idam agra āsīt tasya tejoraso 'tyaricyata sa
brahmā samabhavat sa tūṣṇīṃ manasādhyāyat tasya yan mana āsīt sa Prajāpatir
abhavat »
|
(IT)
« In origine vi era il Brahman soltanto; poiché il succo della sua
forza si espandeva, divenne Brahmā. Brahmā meditò in silenzio con la mente e
la sua mente divenne Prajāpati »
|
(Samāvidhāna
Brāhmaṇa (I,1,3))
|
« Il sacrificio come Prajāpati è anteriore a tutti gli esseri, poiché questi non potrebbero sussistere senza di esso; esso nasce anche dai soffi della mente, poiché è essenzialmente
mentale. [...] [Prajāpati] è
altresì figlio delle Acque, poiché le Acque sono il principio della purezza
rituale; oppure del Brahman, la formula sacra, poiché non c'è separazione tra rito e
liturgia »
|
Il Brahman nelle Upaniṣad
Nato come sostantivo maschile
negli inni dei Veda per
indicare sia le figure sacerdotali che durante il sacrificio competitivo
esprimono dei mantra enigmatici
sul cosmo che lasciano non espressa la risposta[11] sia le
stesse espressioni enigmatiche, nei Brāhmaṇa, il brahman (sostantivo
neutro) diviene il mantra rituale
codificato, e il suo potere, che deve essere semplicemente
appreso e conservato a memoria dal brahmano e
recitato durante i riti.
Con le Upaniṣad si
passa ad indagare la natura di questo Brahman che
diviene l'origine di ogni cosa, l'Assoluto:
« Invisibile, inafferrabile, senza famiglia né casta, senza occhi
né orecchie, senza mani né piedi, eterno, onnipresente, onniprervadente,
sottilissimo, non soggetto a deterioramento, Esso
è ciò che i saggi considerano matrice di tutto il creato. Come il ragno
emette [il filo] e lo riassorbe, come sulla terra crescono le erbe, come da
un uomo vivo nascono i capelli e i peli, così
dall'Indistruttibile si genera il tutto. »
|
« "E, dove risiederà la radice del corpo se non nell'acqua? Analogamente se riteniamo il germoglio
l'acqua, figlio mio, il calore (tejas) sarà la sua radice. Se consideriamo il calore un germoglio l'essere (sat)
sarà la radice. Tutti i viventi hanno le proprie radici
nell'essere (sat), si basano sull'essere, si sostengono sull'essere. Ora mio caro ti è stato detto come queste tre divinità pervenute nell'uomo siano divenute
triplici. Quando un uomo muore, mio caro, la parola rientra nella mente,la sua mente rientra nel soffio
vitale, il soffio vitale rientra nel calore e questi rientra nella suprema
divinità. Qualunque sia questa essenza sottile, tutto l'universo è costituito di essa, essa
è la realtà di tutto, essa è l'Ātman. Quello sei tu
(Tat tvam Asi) o Śvetaketu!". "Continua il tuo insegnamento o
signore!". "Bene, mio caro" gli rispose. »
I (TARDA VEDA) Veda (in alfabeto devanāgarī वेद[1], sanscrito vedico Vedá) sono un'antichissima
raccolta in sanscrito vedico di testi sacri dei popoli arii che invasero intorno al XX secolo a.C. l'India settentrionale,
costituenti la civiltà religiosa vedica,
divenendo, a partire della nostra era, opere di primaria importanza presso quel
differenziato insieme di dottrine e credenze religiose che va sotto il nome di Induismo.
Le Upaniṣad (sanscrito,
sostantivo femminile, devanāgarī:
उपनिषद्) sono
un insieme di testi religiosi e filosofici indianicomposti in lingua sanscrita a
partire dal IX-VIII secolo a.C. fino al IV secolo a.C. (le quattordici Upaniṣad vediche) anche se
progressivamente ne furono aggiunti di minori fino al XVI secolo raggiungendo
un numero complessivo di circa trecento opere aventi
questo nome.
Trasmesse per via
orale, furono messe per iscritto per la prima volta nel 1656 quando
il sultano musulmano Dara Shikoh(1615-1659) ordinò la traduzione dal sanscrito al persiano di
cinquanta di esse e quindi la loro resa in forma scritta[1].
Il termine Upaniṣad deriva
dalla radice verbale sanscrita: sad (sedere) e dai
prefissi upa e ni (vicino)
ossia "sedersi vicino", ma più in basso (ad un guru, o
maestro spirituale), suggerendo l'azione di ascolto di insegnamenti spirituali.
Questo termine richiama
chiaramente, come evidenziato da Mario Piantelli[2],
anche un insegnamento "esoterico". Significativo è che persino la Bhagavadgītā si
qualificava come upaniṣad nel colophon dei
manoscritti del Mahābhārata e che,
evidenzia Piantelli ricordando le note dell'antico commentatore Bhāskara, le
persone di bassa casta[3] che
l'avessero ascoltata avrebbero subito la stessa sorte di coloro che avessero
ascoltato le Upaniṣad senza
averne la qualifica: gli sarebbe stato versato del piombo fuso nelle orecchie.
Questo spiega la ragione per cui le Upaniṣad non
furono mai messe per iscritto ma sempre trasmesse per via orale solo a
persone che erano autorizzate a riceverne gli insegnamenti.
Le Upaniṣad sono,
dunque, commentari "segreti" (rahasya) dei Veda, nonché
loro 'fine', nel senso di completamento dell'insegnamento vedico; per
questo motivo sono anche conosciuti come Vedānta (Fine
dei Veda) e sono alla base del pensiero religioso indiano che attraverso il Brahmanesimo giungerà,
nella nostra era, a costituire quel complesso di dottrine e pratiche che va
sotto il nome di Induismo.
Il termine sanscrito vedico veda indica il
"sapere", la "conoscenza", la "saggezza", e
corrisponde all'avestico vaēdha, al greco antico οἷδα (anticamente ϝοἷδα,
da leggere "voida"), al latino video.
La letteratura vedica origina
da un popolo, gli Arii, che intorno al 2200 a.C. migrò
verso l'India nord-occidentale
(allora indicata come Saptasindhu सप्त सिंधु, Terra dei sette fiumi, in avestico Hapta
Hindu) provenendo dall'area di Balkh (oggi
in Afghanistan settentrionale).
Un altro raggruppamento di questo popolo, gli Iranici,
sempre provenienti dalla medesima area, invase invece l'attuale Iran fondandovi
una cultura religiosa che successivamente fu in parte raccolta nell'Avesta. Fu dunque nell'area
dell'Afghanistan settentrionale
che i Veda acquisirono le loro prime caratteristiche religiose e linguistiche[2].
Elemento centrale delle
credenze religiose degli Arii era lo Ṛta (in
alfabeto devanāgarī ऋत, in avestico Aša)
ovvero la Legge cosmica, e il suo "guardiano" Asura Varuṇa (वरुण devanāgarī, avestico Ahura Mazdā),
concentrandosi il sacrificio religioso nella bevanda sacra, il soma (सोम devanāgarī, avestico haoma) e sul
rito del fuoco (devanāgarī अग्नि agni, avestico āthra).
Con l'ingresso di questi popoli Arii nell'India settentrionale,
e con i conseguenziali scontri militari con le popolazioni autoctone, acquisì
rilievo religioso l'eroico dio guerriero Indra (इन्द्र).
Mentre con il successivo
accoglimento anche di culti autoctoni, spesso fondati su pratiche sciamaniche e
sull'utilizzo di formule magiche (mantra, मन्त्र), la
cultura religiosa degli Arii si
sviluppò e si diffuse sul territorio indiano in quelle caratteristiche che
saranno poco dopo organizzate dai "cantori" (devanāgarī:
ऋषि ṛṣi) dei
primi due Veda: il Ṛgveda e
alcune parti dell'Atharvaveda (2000-1700 a.C.).
Esso è illimitato e inconcepibile:
« Al
principio in questo universo soltanto il Brahman esisteva. Illimitato verso
l'oriente, illimitato verso il mezzogiorno, illimitato verso l'occidente,
illimitato verso settentrione, illimitato di sopra, illimitato da ogni parte.
Esso è costituito di etere. Da questo etere esso desta questo universo. Da
questo esso sorge e in esso va a finire. Di questo Brahman la forma luminosa
è quella che arde nel sole lassù, nel fuoco senza fumo [e nel cuore]. Quello
che è nel fuoco e quello che è nel cuore e quello che è nel sole, sono in
realtà una sola cosa. Nell'unità con l'Uno va colui che così sa »
|
« LOṁ è tutto
l'universo. Ecco la sua spiegazione:
Passato, presente e futuro,
tutto ciò è Oṁ. E anche ciò che va oltre il tempo, che è stato, è e sarà è Oṁ. Infatti ogni cosa è il Brahman. Ātman è il Brahman »
|
Atharvaveda
L'Atharvaveda (anche Atharvāṅgirasaḥ o Brahmaveda) è il
trattato delle formule magiche e della
medicina. Consiste di una raccolta di formule magiche (brahman) sia positive (atharvan)
sia negative (aṅgirga), di carattere popolare. Inizialmente non
fu considerato autorevole ma poi venne inglobato nella raccolta della
letteratura religiosa degli arii e
adottato come manuale rituale dei brahmani. Esistono due recensioni di
questo veda denominate Śaunaka e Paippalāda.
I Veda nelle
tradizioni hindu[modifica | modifica wikitesto]
« Quello
enunciato nel Veda è il Dharma supremo; in secondo luogo viene quello della tradizione sacra;
segue poi quello praticato dagli uomini dabbene. Ecco i tre dharmaeterni. »
|
(Mahābhārata, XIII, 141, 65; citato in La saggezza indiana, a cura di Gabriele Mandel,
Rusconi, 1999)
|
approfondimenti teologici il Brahman impersonale indifferenziato (nirdvaṃdva) divenne oggetto di un processo di personalizzazione in
divinità specifiche, principalmente nella figura dei deva Viṣṇu e Śiva[12].
I bīja ("seme")
sono monosillabi che generalmente non hanno un significato semantico, o lo
hanno perso nel corso del tempo, ma vanno interpretati come suoni semplici atti
a esprimere o evocare particolari aspetti della natura o del divino, e ai quali
sono attribuiti funzioni specifiche e interpretazioni che variano di scuola in
scuola. Spesso questi "semi verbali" sono combinati fra loro a
costituire un mantra, oppure adoperati come mantra essi stessi (bījamantra).
Alcuni fra i più noti sono[15]:
·
AUṂ: è il bīja più
noto, l'oṃ, comune a tutte le
tradizioni. Considerato il suono primordiale, forma fonica dell'Assoluto, è
utilizzato sia come invocazione iniziale in moltissimi mantra, sia come mantra
in sé. Le lettere che compongono[16] il bīja sono A,
U ed Ṃ: nella recitazione A ed U si fondono in O, mentre la Ṃ terminale viene
nasalizzata e prolungata fonicamente e visivamente. La recitazione dell'OṂ è molto
comune, ed è considerata di grande importanza: numerosi testi citano e
argomentano su questo mantra.
·
KLĪṂ: il desiderio. È associato al
dio Kama, dio dell'amore, ma
rivolto anche a Kālī, la distruttrice.
·
KRĪṂ: il tempo. È associato alla
dea Kālī.
·
HŪṂ: protegge dalla collera e dai
demoni.
·
LAṂ: la terra
·
VAṂ: l'acqua
·
RAṂ: il fuoco
·
YAṂ: l'aria
·
HAṂ: l'etere
Come divinità della ricchezza è
venerata da coloro che vogliono guadagnare o mantenere i propri guadagni; si
crede che Lakshmi (e quindi la ricchezza) visiti solo case pulite e abitate da
gente che lavora, mentre si tiene lontana dalla sporcizia e dai pigri.
La dea Lakshmi è
incorrettamente identificata col denaro; questo è certo parzialmente vero, ma è
conseguenza del suo attributo principale, la prosperità o abbondanza. È inoltre
dea anche della purezza e della santità, oltre che del Brahma-vidya (conoscenza
divina); è a lei che ci si rivolge per chiedere felicità in famiglia, amici,
matrimonio, bambini, cibo e ricchezza, bellezza e salute.
È una divinità molto venerata,
e oltre ad essere oggetto di culto da parte di ogni confessione induista
(abbastanza raro per i deva), lo è anche da parte di molti giainisti e buddhisti.
Tra le preghiere
a Lakshmi le più famose sono il Lakshmi
Stuti (tratta dallo Shri Viṣṇu Purana) e lo Shri Sukta.
Otto tipi di ricchezza
Come dea della ricchezza ha 8
aspetti;
1.
Adi Lakshmi (आदि लक्ष्मी, Ādi Lakṣmī) — abbondanza di santità;
2.
Dhanya Lakshmi (धान्य लक्ष्मी, Dhānya Lakṣmī) — abbondanza di cibo;
3.
Dhairya Lakshmi (धैर्य लक्ष्मी, Dhairya Lakṣmī) — abbondanza di coraggio;
5.
Santana Lakshmi (सन्तान लक्ष्मी , Santāna Lakṣmī) — abbondanza di progenie;
6.
Vijaya Lakshmi (विजय लक्ष्मी, Vijaya Lakṣmī) — abbondanza di vittorie;
7.
Vidya Lakshmi (विद्या लक्ष्मी, Vidyā Lakṣmī) — abbondanza di conoscenza;
8.
Dhana Lakshmi (धन लक्ष्मी, Dhana Lakṣmī) — abbondanza di denaro.
Fisicamente, la dea Lakshmi è
generalmente rappresentata come una bella donna, con quattro braccia, seduta su
un loto, vestita con vesti preziose e gioielli; ha un atteggiamento benevolo, è
giovane ed ha un aspetto materno.
Il particolare più evidente
dell'iconografia di Lakshmi è la sua costante associazione al fiore di loto;
questo perché tale pianta, che nasce dal fango ma fiorisce sulla superficie
dell'acqua, senza che il fiore porti traccia alcune del fango, è
simbolo di purezza, forza spirituale, perfezione e autorità. Inoltre,
la posizione seduta su un loto è un elemento ricorrente dell'iconografia di
molte altre divinità induiste e buddhiste, ed indica che l'essere in questione
trascende le limitazioni del mondo (il "fango" dell'esistenza) per
muoversi liberamente in una sfera di purezza e spiritualità (come il loto sulla
superficie dell'acqua).
Il veicolo di Lakshmi è il gufo
(ulooka in sanscrito).
Tantrismo[modifica | modifica wikitesto]
A proposito di questo termine,
"tantrismo", occorre subito chiarire due aspetti fondamentali per la
comprensione dell'intero fenomeno.
Il primo è che il termine
è del tutto sconosciuto alla tradizione classica indiana,
non esiste in sanscrito. Esso fu infatti coniato in
occidente[5][6] nel XX
secolo da studiosi occidentali del mondo religioso indiano. Pare che il primo a
menzionare "tantrismo" sia stato, nel 1918, l'avvocato britannico Sir John Woodroffe, che firmava con lo pseudonimo
Arthur Avalon i suoi testi in qualità di orientalista.[7]
Invero, già dal secolo
precedente gli orientalisti avevano individuato nel mondo hindu un insieme
di fenomeni, culti e ideologie, che non riuscivano a rapportare albrahmanesimo, all'induismo classico fondato
sui Veda e sulle Upaniṣad cioè.
Essi riscontravano queste teorie e pratiche in testi che in buona parte
adoperavano come suffisso il termine "tantra". Di qui i termini
"tantrismo", "tantrico", e "tantra" nel senso di
religione o setta religiosa.[7]
Per Herbert
Guenther il "tantrismo" rappresenta "una delle nozioni più confuse e uno dei
maggiori fraintendimenti che la mente occidentale abbia sviluppato".[
La tradizione
vuole che siano 92 i tantra rivelati da Śiva[12], 28 Āgama e 64 Bhairava tantra. Accanto a questi Śaiva tantraoccorre poi
aggiungere gli Śakta tantra, per le
tradizioni religiose che invece considerano la Dea quale divinità principale;
e molti altri insiemi di tantra che fanno parte di tradizioni minori.
"tantra"
si ricollega alla radice verbale TAN, verbo che vuol dire "stendere", con
riferimento a quanto si fa nella lavorazione dei tessuti. Il termine è perciò
generalmente tradotto con "telaio",
"ordito"[15], e quindi in senso lato,
"opera", "testo"
·
Immanenza: l'universo e gli
esseri umani sono permeati dell'energia divina, la śakti, personalizzata come una Dea.
·
Trasmissione: il tāntrika è un
iniziato, il che implica la presenza di un maestro, il guru, e una
trasmissione della dottrina (saṃpradāya) di maestro in maestro.
·
Segretezza: le
dottrine e le pratiche hanno il carattere della segretezza.
·
Pūjā: il rituale di
adorazione di una divinità è quello della pūjā, che è sempre tantrica nella
sua struttura anche se rivolta a una divinità non tantrica.
·
Mantra: l'oralità,
la parola (vāc), assume un ruolo centrale in tutte le
pratiche e riti, i mantra sono
onnipresenti; molti di essi altro non sono che la forma fonica di divinità.
E aggiunge: "Tuttavia si
può ammettere che il Tantrismo sia una categoria a parte e lo si può definire
in generale come una via pratica ai poteri sovrannaturali e alla liberazione;
consiste nell'uso di pratiche e tecniche specifiche (rituali,
corporee e mentali), che sono sempre associate ad una dottrina particolare."
tantra è "liberazione dal legame"
i praticanti del tantra più elevato dovrebbero possedere
ampie visuali, rinunciando ai pensieri ristretti ed essere disposti a sacrificarsi al fine di promuovere il
benessere altrui
A questo erano
associati culti popolari che si svolgevano ai margini del mondo brahmanico, in segreto, e da questi ebbe
probabilmente origine il mondo tantrico.[46]
« Il tantrismo,
«brahmanizzato», ha «tantricizzato» l'induismo diffusamente, costituendone, per certi
aspetti, il fondo segreto. »
|
||
(André Padoux, 2011, p.
34)
le tradizioni
tantriche che invece prediligono il culto della Dea, che si presenta con nomi e caratteristiche
differenti, a volte anche ben contrastanti fra loro. Abbiamo, come dee più importanti: Tripurasundarī; Kālī, che fa
parte di un gruppo di dieci dee, le Mahāvidyā (le dee della Grande Conoscenza); Durgā.
] Il mondo
ario era essenzialmente patriarcale, né è possibile riscontrare un culto
della Grande Madre nella
cultura vedica.[53] Queste
tradizioni sono dunque molto probabilmente un'eredità delle popolazioni
autoctone dell'India meridionale, delle popolazioni dravidicheo
pre-dravidiche, come i munda; come
aborigena è per esempio la devozione a una divinità sotto forma di
adorazione, labhakti; come aborigena è la forma di
culto più diffusa oggi in India, la pūjā.
|
i seguaci non adottano riti trasgressivi e utilizzano i
mantra e lo yoga come mezzi per la liberazione
Strumento
principale per la liberazione è il rito: i seguaci dello Śaivasiddhānta sono
iper-ritualisti e presentano una devozione emozionale (bhakti) molto
accentuata.
Il cammino per
la liberazione è aperto a tutte le classi sociali, ma inaccessibile alle donne, le quali possono soltanto beneficiare
del percorso del proprio consorte.
l'introduzione
nel mondo tantrico dello Haṭhayoga, sistema Yoga che contempla numerose posture (āsana), anche difficili,
pratiche di purificazione del corpo e tecniche di meditazione complesse. La
dottrina è non-dualista: tramite i metodi dello Haṭhayoga ci si può
ricongiungere con Dio, Śiva, che è attivo nel mondo con la sua śakti, non venerata quindi come dea ma visualizzata
come sessualmente unita a Śiva
Del Kula
originario, come delle altre sette, non si sa molto. Questo nucleo evolse[66] dando luogo a quattro tradizioni, ciascuna coi propri Tantra e ciascuna col proprio
pantheon, ma con le medesime concezioni metafisiche: sono non dualisti; e con
un complesso di riti e pratiche yogiche somiglianti. Sono tradizioni śākta, essendo la divinità principale una
Dea, personificazione della "energia
divina" di Śiva. Śiva
conserva pur sempre una supremazia, che però è più di ordine metafisico che
devozionale, e la Dea è adorata
sotto numerossissime forme, restando però una[67] e sovrana.
Culti delle quattro tradizioni del Kula sono culti trasgressivi e visionari, e in
questo si differenziano molto da altre tradizioni. Trasgressivi sia per l'uso di sostanze e cibi ritenuti impuri
dall'ortodossia brahmanica; sia per l'adozione di pratiche proibite, quali l'unione sessuale
ritualizzata (tranne che nella tradizione del Dakṣiṇa-āmnāya,
la più moderata fra le quattro). I culti visionari prevedono pratiche di
meditazione complesse, sia su yantra, sia sulle icone adibite
al culto e all'adorazione, la pūjā
Il tantrismo, nel fine che
persegue in quanto insieme di dottrine, non si differenzia dagli altri
movimenti religiosi hindu: è anch'esso una via per la liberazione (mokṣa) dal ciclo delle rinascite (saṃsāra), dalle sofferenza che l'essere in
vita comporta. L'uomo vive in universo che è emanato e continuamente animato da
Dio[77], il quale Dio può manifestare la
sua potenza sia sotto forma di oscuramento (tirodhāna), essere cioè di
ostacolo alla salvezza, sia concedendo la grazia (anugraha) nel mostrare
le vie per la liberazione.[78]
Fra l'umano e il divino
sussiste un isomorfismo per cui il corpo risulta
permeato di forze sovrannaturali. Il corpo assume, nelle tradizioni tantriche,
un'importanza nucleare[79] proprio
per questa compenetrazione fra umano e divino, fra corpo e universo. La
concezione non è certo nuova: già nei Veda è
possibile rintracciare l'idea del corpo umano come microcosmo,
e del macrocosmo come corpo; ma è proprio nel tantrismo che quest'aspetto si
presenta come dato assolutamente caratteristico, e quasi ogni aspetto del mondo
tantrico è inquadrabile in relazione al corpo.[80] Così
recita una Upaniṣad dello
Yoga:
« Nel
corpo dell'adepto, / l'elemento Terra è situato / tra i piedi e le ginocchia;
/ la Terra è un quadrato / di colore giallo / e il suo mantra è LAM. / Là
risiede Brahmā, / con quattro braccia, quattro
volti, / splendenti come l'oro. »
|
(Yogatattva Upaniṣad, 86 e segg.;
citato in Jean Varenne, 2008)
|
Per quanto concerne il sistema
in sé, la via tantrica, più che essere una dottrina coerente, è un insieme di
pratiche e ideologie, caratterizzato da una grande importanza dei rituali, da
pratiche per la manipolazione dell'energia (śakti), con azioni
talvolta considerate "trasgressive",
dall'uso del mondano per accedere al sopramondano e dall'identificazione del
microcosmo con il macrocosmo.[81]
Tale correlazione consentirebbe
al tāntrika (l'adepto
dei Tantra) di poter accedere, mediante delle precise tecniche, all'energia
cosmica presente nel proprio corpo e quindi raggiungere la liberazione con
questo corpo e in questa vita (jīvanmukti).
Il tāntrika cerca
di utilizzare il potere divino che scorre in tutte le manifestazioni universali
al fine di ottenere i propri risultati, siano essi spirituali, materiali o
entrambi.[82]
I tāntrika considerano
la guida di un guru un
prerequisito indispensabile[83]. Nel processo di manipolazione
dell'energia il praticante ha diversi strumenti a disposizione: tra questi lo Yoga,
con pratiche anche estreme che portano a un controllo pressoché completo
del proprio corpo; la visualizzazione e verbalizzazione della divinità attraverso
i mantra, e la meditazione su di essi;
l'identificazione e internalizzazione del divino, con pratiche meditative
tendenti a una totale immedesimazione con una divinità[84].
Secondo la visione del mondo hindu, l'evoluzione del mondo è ciclica, e
all'interno di ogni ciclo (detto kalpa)
sussistono ere (dette yuga) nelle
quali la storia principia da un'età dell'oro (Satya Yuga) per giungere ad ere cosmiche
di progressivo declino spirituale. L'ultima era, detta Kali Yuga (quella
in cui attualmente viviamo), è caratterizzata da ignoranza spirituale,
diffusione di falsi dèi o ateismo, commistione delle caste, guerre e sovvertimento
dei valori del dharma.
Gli adepti del Tantra ritengono
che i Veda e la
tradizione brahmanica non siano più adeguate in questa nostra era: l'uomo ha
perso la capacità spirituale di servirsi di quella tradizione per conseguire la
liberazione. Né il rito vedico, né l'introspezione avviata nell'epoca delle Upaniṣad e
nemmeno i metodi dello Yoga classico sono ritenuti sufficienti a questo scopo.
In alcune tradizioni tantriche è possibile persino ravvisare un disprezzo per
gli asceti: nel Kulārṇava Tantra si
ironizza sul fatto che questi girino nudi come gli animali, ma non
per questo, come gli animali, raggiungono la liberazione.[85] Nel Guhyasamāja
Tantra si può leggere:
« Nessuno
riesce a ottenere la perfezione mediante operazioni difficili e noiose; ma la
perfezione si può acquistare facilmente mediante la soddisfazione di tutti i
desideri »
|
(Guhyasamāja Tantra; citato in
Mircea Eliade, Lo yoga, Op. cit., p. 197)
Il guru,
specie nelle tradizioni tantriche, è ben più che un maestro spirituale. Egli non si limita ad impartire la dottrina al
discepolo (śiṣya) come un ordinario maestro potrebbe fare, per quanto
accorato e devoto: il guru è come un dio (gurudeva)
che grazie alla propria potenza spirituale (śakti)
"trasmette" al discepolo la dottrina e gli oggetti della tradizione. Per esempio, un mantra non può essere appreso semplicemente
ascoltandolo (né tantomeno apprendendolo da un testo): deve e può solo essere passato dal guru al discepolo (guru śiṣya paramparā).
Fra
i due si stabilisce una relazione intima che ha i caratteri della
riservatezza, della devozione e dell'
Per esempio, la gurupādukā, l'impronta dei
piedi del guru, va vista come il segno della presenza divina, e come tale
adorata e omaggiata.
|
è una
cerimonia piuttosto complessa. Il guru, quando ritiene essere giunto il
momento, comunica al discepolo la decisione di introdurlo nella setta. Viene
quindi organizzata una cerimonia con gli altri membri del cakra. Questa comincia con la recitazione di mantra e offerte alla Dea, quindi prosegue con la richiesta ritualizzata del guru al
Signore del Cerchio (cakreśvara). Il discepolo viene interrogato e
preparato, mentre prosegue l'adorazione alla Dea. L'iniziazione propriamente
detta ha luogo con il posizionamento del discepolo su un maṇḍala appositamente tracciato
sul suolo; un'aspersione; la trasmissione di un mantra
personalizzato; l'imposizione di un nome nuovo; quindi l'iniziato offre doni agli astanti. La cerimonia prosegue con riti che includono il pasto e l'unione sessuale (maithuna).
L'iniziato, il tantrikā, continuerà la sua via verso la realizzazione spirituale (sādhana) e un giorno potrà diventare guru egli stesso. Toccherà
quindi a lui perpetuare (saṃpradāya) la dottrina, in quella che è
una successione di maestri (guru paramparā) che così tramandano la
disciplina.
L'individuo è immaginato
possedere una struttura complessa che convive col
corpo fisico: è questo il "corpo yogico"[89]. Tale corpo
yogico è costituito di canali (nāḍī) e centri (cakra o padma)[90], e in esso gioca
un ruolo determinante una potenza non umana bensì divina, la kuṇḍalinī. Lungo
uno dei canali principali, la suṣumnā,
quello che verticalmente collega la regione perineale con la
sommità del capo, la kuṇḍalinī, che
normalmente si trova allo stato latente alla base del canale stesso, può
risalire, con pratiche adeguate, verso l'alto conducendo così alla liberazione.[91]
Il filosofo Kṣemarāja (X-XI
secolo), discepolo di Abhinavagupta ed
esponente della scuola del Trika[92], nel commentare
un passo degli Śivasūtra, così
descrive la kuṇḍalinī quiescente:
« L'energia
sottile e suprema è addormentata, attorcigliata come un serpente; essa
racchiude in sé il bindu, e insieme l'universo intero,
il sole, luna, astri e mondi. Ma essa è incosciente, come obnubilata da un
veleno. »
|
(Kṣemarāja, Śivasūtravimarśinī, commento a
II, 3; citato in Lilian Silburn, La kuṇḍalinī o l'energia del profondo, trad. di Francesco Sferra, Adelphi, 1997, p. 76)
|
Bindu è il seme
maschile, la scintilla che può risvegliare la kuṇḍalinī. In
questo caso bindu è anche
simbolo di Śiva in
quanto Coscienza.[93]
Il corpo
yogico, fondamentale in quasi tutte le pratiche meditative e rituali, è
ovviamente immateriale, è una struttura somatica inaccessibile ai sensi che
l'adepto crea immaginandola,
visualizzandola. Del resto molti culti tantrici sono culti visionari.
Secondo una
interpretazione classica, il termine haṭhayoga vuol dire letteralmente: unione (yoga) del Sole (ha) e della Luna (ṭha); e questa
lettura risponde in pieno alle dottrine tantriche, per le quali la liberazione è il ricongiungimento della śakti, presente nell'individuo come kuṇḍalinī, con l'assoluto, Śiva, immaginato risiedere nell'ultimo cakra.[95] È da notare che in questo simbolismo, Śiva è rappresentato
dalla Luna: nell'iconografia classica del Dio, bianco è il colore della sua
pelle, bianco come il crescente di Luna che porta fra i capelli, bianco come il colore dello sperma, e sia per
"Luna" sia per "sperma" è anche
utilizzato il termine soma, il succo sacrificale, e il Dio di cui si parla nei Veda
Quando non
emette, la kuṇḍalinī assume la forma di pura energia
quiescente (śaktikuṇḍalinī). In seguito diventa energia vitale o del
soffio (prāṇakuṇḍalinī). Anche giunta al punto estremo dell'emissione,
essa rimane la kuṇḍalinī suprema, chiamata brahman supremo,
firmamento di Śiva e sede del Sé. I movimenti alterni di emanazione e
riassorbimento non sono che l'emissione del Signore. »
|
(Abhinavagupta, Tantrāloka 138-41ab;
citato in Lilian Silburn, La Kuṇḍalinī o l'energia del profondo,
trad. di Francesco Sferra, Adelphi, 1997, p. 46)
|
In un testo precedente (IX
secolo circa), il Vijñānabhairava Tantra[98] ("Conoscenza
del Tremendo"[99]), è presentato
concisamente un compendio di tecniche yogiche; qui un
esempio di uso del controllo della respirazione per il risveglio della kuṇḍalinī:
« Il
soffio ascendente esce, il soffio discendente entra, di sua propria volontà,
in forma sinuosa. La Grande Dea si estende
dappertutto Suprema-Infima, supremo luogo sacro. »
|
proverbi
tantrici: "ci si deve rialzare con quello che ci fa cadere" e
"lo stesso veleno che uccide diventa l'elisir della vita se usato dal
saggio"
Il maṇḍala, o lo yantra, è
utilizzato in diversi modi: può essere tracciato sul suolo, per lo svolgimento
di alcune cerimonie che ne prevedono l'uso (come le iniziazioni); può essere
disegnato o dipinto su stoffa o inciso su pelle o metallo, per realizzare uno
strumento di meditazione o anche di adorazione di una divinità (spesso
la Dea) che vi viene fatta temporaneamentediscendere.[108] Esistono,
inoltre, anche yantra tridimensionali.
Così un testo della scuola Kaula:
« La
differenza fra lo yantra e la divinità che esso simboleggia è simile alla
differenza tra un corpo e l'anima che lo abita. »
|
(Kaulāvalīam; citato in Alain
Daniélou, Miti e dèi dell'India, traduzione
di Verena Hefti, BUR, 2008, p. 396)
|
I mantra, che esistono sin dall'epoca vedica, rivestono nelle tradizioni tantriche un'importanza
particolare, e per la loro onnipresenza nel rituale, e per il loro senso profondo. Mentre nel brahmanesimo il
mantra è l'inno invocato nelle oblazioni o la formula rituale, nel contesto
tantrico il mantra si arricchisce di altri significati, divenendo spesso un enunciato privo di senso apparente, denso
di "energia", adoperato anche per scopi magici oltre che
religiosi.
pesso, ma non sempre, un mantra
è inteso come la forma fonica di una divinità, e quando così, è
ritenuto sacro. Ad esempio, il mantra della dea Tripurasundarī è:
« HA SA
KA LA HRĪṂ, HA SA KA HA LA HRĪṂ, SA KA LA HRĪṂ »
|
Esso è costituito di quindici
sillabe ordinate in tre gruppi. Queste sillabe sono poi a loro volta mantra,
mantra monosillabici detti bīja ("seme"),
ognuno portatore di un particolare significato o essi stessi forma fonica di
una divinità, e possono essere raggruppate per costruire così mantra più
complessi, come quello riportato nell'esempio.
Il bīja SAUḤ è, per
esempio, il mantra della Dea suprema del Trika, composto dai tre fonemi S ("l'Essere"), AU ("la
congiunzione delle tre energie di Śiva"), Ḥ("l'emissione
cosmica", il visarga).
L'interpretazione è del filosofo Abhinavagupta:
"L'universo, grazie alla presa di coscienza delle tre
energie, è seme che sta per essere emesso nel grembo di Bhairava[113]". SAUḤ è
quindi l'universo nel suo stato nascente: in questo senso il mantra è anche
noto come «il seme del cuore di Śiva». Esso è adoperato nelle pratiche yogiche
per l'ascesa della kuṇḍalinī[114], e
così André Padoux commenta:
« Ne
consegue un'esperienza cosmica di salvezza nella quale si combinano, in modo
decisamente tantrico, identificazione vissuta con la parola nella sua potenza
corporea e cosmica e apprensione intellettuale, se non di una realtà, per lo
meno di una costruzione metafisica. »
|
(André Padoux, 2011, p. 146)
|
Il bīja di
certo più noto è Oṃ, che può
essere impiegato da solo, come espressione fonica dell'Assoluto,
o adoperato come formula iniziale dei mantra di invocazione, come ad esempio nell'invocazione
alla Dea Kālī: Oṃ
Kalyai namaḥ.
La recitazione
ripetitiva di uno stesso mantra è detta japa, pratica spesso accompagnata da una precisa gestualità
anch'essa densa di significati, le mudrā, e adoperata in molti contesti, quali la pūjā; i riti
collettivi; o anche come ordinario atto di devozione a una particolare divinità; oppure, connessa alla respirazione, nelle
pratiche meditative.[115] L'esempio più eclatante di
tecnica meditativa con mantra è quello della cosiddetta "recitazione non
recitata" (ajapājapa), nella quale il mantra HAṂSA non è in realtà
pronunciato, ma articolato con i flussi dell'inspirazione
e dell'espirazione. Questo mantra è costituito dai bīja HA e SA che vengono qui intesi
come l'espressione delle frasi ahaṃ saḥ ("io sono Lui") e, in senso inverso, so 'haṃ ("Egli è me", con riferimento a Śiva): la funzione fisiologica
della respirazione è qui strettamente connessa con la parola, il tutto inteso come un'espressione complessa dell'identificazione con Dio
I riti sessuali potrebbero
essere emersi agli inizi del Tantra induista anche come un metodo pratico di generare fluidi corporei trasformativi per costituire
un'offerta vitale alle divinità tantriche, oppure essersi evolute da cerimonie
di iniziazione dei clan che comprendevano la transazione di fluidi sessuali.[117]
Nelle tradizioni del Kaula, per esempio,
l'iniziato di sesso maschile era inseminato o insanguinato con le emissioni
sessuali della consorte femmina, talvolta frammiste
al seme di un guru, ed era
così trasformato in figlio del clan (kulaputra) per grazia della
consorte; si pensava infatti che il fluido del clan (kuladravya) o
nettare del clan (kulāmṛita) scorresse naturalmente dalla sua pancia.
Sviluppi successivi del rito enfatizzavano l'importanza della beatitudine e dell'unione
divina, che sostituirono le connotazioni più corporee delle forme più
antiche. Sebbene in Occidente il Tantra sia pensato come coincidente con i riti
sessuali, solo una minoranza di sette vi fa ricorso, e nel
tempo per lo più questi riti hanno subito un processo di sublimazione
È però
possibile affermare che tratto comune di tutte le tradizioni tantriche è la
piena accettazione della varietà del mondo, del piacere in
generale e del desiderio sessuale o amoroso (kāma)
in particolare. Del resto in India il sesso non è
certo un'attività peccaminosa,
anche se il perseguire il piacere, l'esserne in qualche modo dipendente cioè,
continua a legare l'individuo al mondo ostacolando la liberazione.[118] Questo
contrasto fra il sesso e il fine spirituale delle liberazione è risolto, in
alcune tradizioni tantriche, guardando all'eros come la via maestra
per accedere al divino, eros qui inteso come principio presente in diverse
forme, non solo nei riti e nelle pratiche, ma anche nelle speculazioni
metafisiche, nella teologia, nella mitologia, nei pantheon e nello yoga.[119]
Una caratteristica
comune ai pantheon tantrici è la coppia (yamala): ogni dio è
compagno di una dea, per esempio Śiva conPārvatī,
o anche con Durgā o Umā; Viṣṇu con Lakṣmī; Bhairava con Tripurasundarī; Kṛṣṇa con Rādhā; eccetera. Anche
nelle tradizioni śākta, dove
è la Dea a essere considerata Essere Supremo (per esempio Kālī o Kubjikā), pur se meno appariscente, è presente la
divinità maschile, quasi sempre Śiva.[120]
La coppia divina è in realtà,
specie nelle dottrine moniste del
Kashimir, intesa come l'unica divinità suprema, vista nei due
aspetti trascendente (il maschile) e immanente (il femminile). La Śakti, il polo femminile,
altro non è se non la potenza del Dio[121],
il suo aspetto immanente, la forza vivificante che opera nel mondo.[120] Śakti è
presente nell'essere umano comekuṇḍalinī, energia quiescente, che
l'individuo può risvegliare e
utilizzare per fini spirituali. Śakti è presente in ogni donna, nel
senso che ogni donna è ritenuta rappresentare e possedere naturalmente
l'energia divina. Da ciò deriva il posto in un certo senso privilegiato che la
donna occupa nelle tradizioni tantriche, cosa che non è possibile riscontrare
nel brahmanesimo. Di più, secondo la tradizione vaiṣṇava del Sahajiyā (tuttora
seguita nel Bengala presso
i Bāul), e l'uomo e la donna sono ritenuti
rappresentazioni concrete della coppia divina, in
questo caso Kṛṣṇa e Rādhā, e l'unione sessuale ritualizzata è mezzo per il
raggiungimento del samādhi.[122]
La kuṇḍalinī, forma
concreta della Śakti,
si trova normalmente inattiva
nell'individuo, arrotolata (è
questo il significato letterale del termine) nella zona perineale del corpo
yogico. Secondo le dottrine yogiche del Tantra, questa kuṇḍalinī ha come
meta suprema, proprio in quanto Śakti, il ricongiungimento con la controparte
maschile, Śiva: è la riunione del maschile e del femminile, il ripristino
dell'androginità originaria, la realizzazione nel microscosmo umano dell'Essere
Supremo. Nei testi che spiegano le tecniche yogiche per la risalita della kuṇḍalinī, il
linguaggio adoperato è ricco di metafore sessuali.[123]
Così si esprime Abhinavagupta a
proposito dell'unione:
« La
fusione, quella della coppia Śiva e Śakti, è l'energia della felicità, da cui
emana tutto l'universo: realtà al di là del supremo e del non-supremo, essa è chiamata Dea, essenza e Cuore [glorioso]: è l'emissione, il Signore
Supremo. »
|
(Abhinavagupta, Tantrāloka III, 68-69; citato in Lilian Silburn, La Kuṇḍalinī o l'energia
del profondo, trad. di Francesco Sferra,
Adelphi, 1997, p. 45)
|
E Jayaratha, aggiunge la Silburn, nel suo commento a questo passo[124] parla di unione della kuṇḍalinī con Śiva come sfregamento che dà reciproco
godimento.
Il cakra-pūjā è una
cerimonia religiosa di gruppo: cakra ("cerchio")
indica qui il circolo di cui fanno parte i membri di una comunità tantrica. Il
rito avviene di notte: attorno a un trono dedicato alla Dea, gli officianti
maschi si dispongono a ferro di cavallo. Il Signore del Cerchio assegna a
ogni uomo una donna (a sorte o seguendo un piano solo a lui noto), che andrà a
sedersi alla sinistra del compagno. Il rito prosegue con offerte alla Dea,
recitazione di mantra e meditazioni secondo un rituale complicato, al termine
del quale ogni coppia si apparta.[126]
Un rito molto esplicito è la yoni-pūjā ("adorazione
della vagina"). Il rito fa parte di una tradizione vaiṣṇava ed è
descritto nello Yoni Tantra. Una
donna, opportunamente preparata e ornata, è collocata prima su un maṇḍala e poi
fatta accomodare sulla coscia sinistra dello yogin che officia il rito. Costui
procede con la cerimonia facendole bere del vino, recitando
mantra e massaggiandole la vagina con pasta
di sandalo, quindi si unisce a lei. Le secrezioni dell'eiaculazione sono poi
offerte come oblazione alla Dea. Diversi altri testi
prescrivono l'unione sessuale rituale, talune molto particolari, come quella
che si pratica di notte su cadaveri.[127]
L'unione sessuale e l'uso del
vino per fini rituali sono pratiche ritenute non ortodosse nel brahmanesimo,
anzi proibite; e proibito al brahmano è in ogni caso il consumo di bevande
alcooliche, di carne e pesce, stante al Manusmṛti (la
"Legge di Manu"), testo fondamentale del codice e dell'etica hindu.
Nelle tradizioni tantriche cosiddette della "mano sinistra" (vāmācāra)
sono invece trasgredite proprio queste raccomandazioni, e la questione è nota
come le pratica delle «cinque emme»: maithuna (unione
sessuale), māṃsā (carne), madya (vino), matsya (pesce), mudrā (cereali
arrostiti).[128]
E a proposito del maithuna,
questo Tantra della
tradizione Kaula (XII secolo circa) sottolinea il significato
spirituale dell'amplesso:
« Per chi non sa questo, la propria consorte a cui deve unirsi
giace incosciente, ma così conosce, sa che essa è la consorte interiore, ben
desta, la shakti con cui compiere la propria unione. L'effluvio di beatitudine
che è prodotto dall'amplesso della coppia divina del Supremo Shiva e la Suprema Dea, questo è l'unico e vero significato dell'unione sessuale. Chi in altro modo si unisce a
una donna, non è altro che un animale che copula. »
|
(Kulārṇava
Tantra, V, 111-112; citato in Cattive tradizioni.
Estratti dalla via della mano sinistra, a cura di
Fabio Zanello, Coniglio editore, Roma, 2008)
|
Quando eseguito in accordo al
Tantra il rituale sessuale culmina in una sublime esperienza di infinita
consapevolezza, per entrambi i partecipanti. I Tantra specificano
che il sesso ha tre finalità ben distinte - procreazione, piacere e
liberazione. Coloro che cercano la liberazione evitano l'orgasmo frizionale
per una forma più alta di estasi, e la coppia
che prende parte al rituale si immobilizza in un abbraccio statico; diversi
rituali sessuali sono raccomandati e praticati, comprendendo riti purificatori
e preparatori elaborati e meticolosi. L'atto risulta in un equilibrio delle
energie che scorrono nell'ida prāṇico nel corpo
yogico di entrambi i partecipanti, il suṣumnā si
risveglia e la kuṇḍalinī risale
dentro di esso. Questo può infine culminare nel samādhi, dove
le rispettive individualità di ciascuno sono completamente dissolte nella
coscienza cosmica. I praticanti interpretano l'atto su molteplici livelli; i
partecipanti maschio e femmina unendosi fisicamente rappresentano il Dio e
la Dea, il principio maschile e quello femminile, e al di là del corpo fisico
le due energie si fondono generando un unico indistinto.[83].
molti oggi lo vedono invece come una celebrazione dell'uguaglianza
sociale, della sessualità, del femminismo e della cultura del corpo[
Woodroffe era
apologetico nei confronti del Tantra, difendendolo contro le innumerevoli
critiche e presentandolo come un sistema etico-filosofico
compatibile con i Veda e i Vedānta[
britannico, che si ispirò allo
yoga tantrico per promulgare pratiche di magia sessuale; Omar Garrison, che nel 1964 pubblicò Tantra.
The Yoga of Sex, contribuendo alla diffusione dell'idea del sesso come
componente fondamentale del fenomeno tantrico e come "salvezza" per
l'Occidente.[132][133]
Il padre fondatore della psicologia analitica, Carl Gustav Jung (1875 –
1961), dedicò molti saggi al simbolismo del maṇḍala,
considerando l'India come il paese dove i simboli dell'inconscio collettivo si
manifestano più chiaramente.[134]
Hugh Urban,
Zimmer, Julius Evola, e Eliade vedevano il Tantra come
«la culminazione di tutto il pensiero indiano: la forma più radicale di
spiritualità e il cuore arcaico dell'India aborigena», e lo consideravano
come la religione ideale dell'era moderna. Tutti e tre vedevano il Tantra come
«il cammino più "trasgressivo" e "violento" verso il
sacro»[135]. Zimmer elogiò il Tantra per il
suo atteggiamento affermativo nei confronti del mondo:
« Nel
Tantra, l'approccio non è quello del Nay (arcaismo per "No") ma dello Yea (arcaismo per
"Sì") [...] l'atteggiamento verso il mondo è affermativo [...]
L'uomo vi si deve avvicinare attraverso e per mezzo della natura, non con il
rifiuto della natura" »
|
(Urban, 2003, p. 168)
|
il Tantra cominciò a essere visto come un "culto
dell'estasi" che combina spiritualità e sessualità, in modo da agire come
una forza correttiva dell'atteggiamento repressivo della cultura occidentale
nei confronti del sesso.
All'interno
della occidentalissima New Age, la visione del Tantra, diventato ormai popolare
in Occidente, subì un'ulteriore e significativa trasformazione, dando luoghi a
fenomeni come il neotantrismo, corrente
invero molto differente dalla tradizione tantrica originale indiana. Per molti
lettori occidentali moderni, "Tantra" è diventato un sinonimo di
"sesso spirituale" o "sessualità sacra", il concetto che il
sesso stesso debba essere santificato in quanto capace di elevare la coppia ad
un piano di spiritualità superiore.
Shambhavi
Saraswati, direttrice spirituale dell'organizzazione no profit "Jaya
Kula", riporta una descrizione sintetica ma efficace della differenza tra
Tantra e Neotantra: «Il neo-Tantra ritualizza il sesso. Il vero Tantra
sessualizza il rituale»
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